La Dea dimenticata della Bibbia
Il viaggio della Dea delle origini ci ha portato sulla soglia del monoteismo ebraico, frutto delle contaminazioni culturali babilonesi, assire ed egizie, nonché intriso dalle reminiscenze del culto antico e universale della Dea Madre.
Se volessimo indicare sulla linea del tempo quando è iniziato in modo consapevole il processo di formazione del monoteismo ebraico, dovremmo segnare il 586 a.C., l’anno in cui Gerusalemme, capitale del regno di Giuda, venne depredata e distrutta dai Babilonesi guidati da re Nabucodonosor[1].
Coloro che hanno letto l’Antico Testamento, o anche solo parte di esso, si saranno accorti che la voce dominante è quella di Yahweh, il dio biblico, che lotta per l’affermazione del suo culto e del suo popolo nella terra di Canaan, costantemente minacciato dal politeismo cananeo. A differenza di quel che si crede il monoteismo di Yahweh ha faticato a imporsi. Ha dovuto contendere le attenzioni del popolo che con devozione portava offerte, bruciava incensi e innalzava canti ad altri dèi.
A titolo esplicativo cito il saggio Salomone che, oltre ad avere sposato numerose donne straniere (contravvenendo così ad un ordine di Yahweh), costruì santuari per Camos, il dio dei Moabiti, e per Moloc, dio degli Ammoniti. E adorò pubblicamente la dea Astarte di Sidone[2], una delle più importanti divinità del pantheon cananeo. Durante il regno di Salomone, datato all’incirca nella prima metà del X secolo a.C., il politeismo delle tribù di Israele era ancora ben saldo e diffuso, e lo stesso si può dire per i secoli successivi. Innumerevoli sono i passi della Bibbia che riportano la rabbia e la frustrazione di Yahweh per la dichiarata idolatria perpetrata dal suo popolo.
Immagino i grattacapi dei redattori biblici per giustificare la persistente idolatria del popolo eletto che si prostrava con devozione agli “abominevoli” dèi stranieri.
Le leggi bibliche sono chiare al riguardo, l’idolatria e il politeismo devono essere puntiti con la pena di morte[3]; lo stesso vale per chi promuove o asseconda l’idolatria da parte di altri[4]. A volte la pena capitale è comminata per un’intera città, compresi gli animali[5] e provoca lo sterminio di uomini e donne, bambini e lattanti[6].
L’espressione biblica “ciò che male agli occhi del Signore” mette in risalto quanto l’idolatria fosse considerata un vero e proprio peccato ripugnante, nonché un tradimento nei confronti di Yahweh, che si accende ira e punisce il popolo[7], che si irrita[8], si sente provocato[9] e, di conseguenza, castiga le tribù di Israele con flagelli o terribili tragedie.
In questa categoria sono da inserire i drammatici eventi che portarono alla sconfitta del regno di Israele e poi di quello di Giuda con le consegnati deportazioni e umiliazioni. Gli autori biblici intesero in questo modo mettere in evidenza la “dottrina della retribuzione” secondo cui ad un comportamento peccaminoso corrispondeva la punizione da scontare durante la vita terrena; viceversa, il fedele seguace di Yahweh sarebbe stato ricompensato con ricchezza, mogli e prole.
Nonostante ciò, come dicevo, l’idolatria è costante nel racconto biblico.
Quando le tribù di Israele entrarono nella terra di Canaan incontrarono una cultura con un forte e strutturato senso religioso. Il variegato pantheon cananeo, paragonabile a quello sumero-babilonese, presentava divinità maschili, come El o Baal, che influenzarono enormemente la formazione del dio biblico, e molte divinità femminili. Per i clan degli Israeliti stanziati nella terra di Canaan, composti da uomini di origine diverse e legati ai culti ancestrali dei padri, fu pressoché naturale incorporare la mitologia, i luoghi di culto, le feste e costumi rituali dei cananei, comprese le dee come Athirat o Astarte. Il Libro di Geremia riporta in modo chiaro le vecchie tradizioni politeistiche, diffuse e mantenuti dagli Israeliti, infatti vi si legge:
«I figli raccolgono la legna, i padri accendono il fuoco e le donne impastano la farina per preparare focacce alla Regina del cielo (epiteto della Dea madre)»[10];
«Bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libagioni come abbiamo già fatto noi, i nostri padri, i nostri re e i nostri capi nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme»[11].
La Bibbia conserva la memoria degli effetti positivi prodotti dal culto della Dea poiché viene detto che quando la si onorava con libagioni, si viveva felici, senza alcuna sventura e con cibo in abbondanza[12].
Le disgrazie sono iniziate proprio nel momento in cui tali pratiche sono state sospese per volontà di Yahweh[13].
Presso i Cananei, come in altre culture del Vicino Oriente Antico e del Mediterraneo, le donne ricoprivano anche ruoli di grande rilevanza sociale come essere somme sacerdotesse: esse, come spiegato ne La Dea delle origini, erano ipostasi della dea dai mille volti e, pertanto, detentrici di potere e sapienza.
È plausibile supporre che anche presso le tribù di Israele, almeno in alcuni periodi, le donne ricoprissero funzioni analoghe. La memoria di tali figure femminili è ravvisabile in Debora, profetessa e giudice di Israele nel XII secolo a.C., in Giuditta, che uccide il generale Oloferne, al servizio del re Nabucodonosor, o in Ester, l’orfana che divenne regina della Persia e il cui nome presentava singolari affinità con Ishtar, la dea Mesopotamia dell’amore e della guerra[14].
Debora e Ester sono vere rarità, poiché il modello dominante e sostenuto nell’Antico Testamento era patriarcale e maschilista. Rammento che la donna occupava un posto di secondo piano nella società israelita e veniva considerata, dal punto di vista giuridico, più come un oggetto che come una persona; difatti, nei Dieci Comandamenti è annoverata tra le proprietà del marito, insieme alla casa o ai servi. Sottomessa, senza voce né diritti, la donna israelita era una presenza insignificante, costantemente esclusa dalla vita pubblica, culturale e politica. Come in altre società patriarcali, aveva come unico compito quello di generare molti eredi.
Torniamo agli dèi. Il pantheon cananeo venne assorbito e adattato dagli Israeliti nell’arco di diversi secoli ed è in questo periodo che si modellarono le caratteristiche principali del dio tribale. Il sincretismo con gli dèi fece sì che la figura di Yahweh assorbì molti degli attributi e delle funzioni degli dei cananei; ad esempio con il nome di El, Yahweh ne assunse anche la reputazione di benevolenza e di saggezza. Allo stesso modo acquisì la voce tonante di Baal (1 Sam 2,10), le sue capacità fecondanti (Os 2,10) e il suo appellativo di «cavaliere delle nubi» (Sal 68,5)[15].
Anche se ad una prima lettura può sfuggire, le pagine dell’Antico Testamento conservano la presenza della Dea Madre, nominata come Astarte o Asherah. Sebbene le tendenze sincretistiche siano state condannate dai profeti di Israele e dagli autori post-esilio babilonese, è innegabile che la vita religiosa delle tribù, intrise di culti cananei, prevedesse rituali legati al potere divino della fertilità, rappresentato dalle caratteristiche femminili della divinità:
«gli scavi archeologici in Palestina hanno portato alla luce numerosissime figurine femminili usate come amuleto per assicurare la fertilità. Si è anche riscontrato che gli Ebrei adoravano la dea Asherah e Astarte, divinità legata alla fertilità (cfr. Gdc 2,13; 3,7; 1 Sam 7,4; 12,10; 1 Re 15,13; 2 Re 21,7; 23,6). Di recente sono state scoperte a Kuntillet ‘Ajrud (Palestina meridionale) iscrizioni risalenti al IX secolo a.C., in cui YHWH viene benedetto accanto ad Asherah, cosa che fa pensare a un culto sincretistico. Inoltre in Giuda alla fine del periodo monarchico era diffuso il culto della Regina del Cielo (Ishtar?) (Ger 7,18; 44,18)»[16].
Le testimonianze archeologiche dimostrano che anche presso gli Israeliti il culto della Dea era vivo e attivo sotto varie forme. Ciò si lega ad una riflessione esposta da Raphael Patai, storico, etnografo e antropologo ungherese:
«in considerazione della generale predisposizione umana, psicologicamente determinata, a credere e ad adorare le dee, sarebbe strano se la religione ebraico-giudaica, che fiorì per secoli in una regione di massiccio culto della dea, ne fosse rimasta immune».
Chi era dunque la dea dimenticata dell’antico Testamento?
Non sono molte le dee menzionate nei libri dell’Antico Testamento e tutte, com’era prevedibile, ci riconducono al pantheon cananeo. I nomi presenti sono Asherah e Astarte, le quali presentano affinità con altre dee come Inanna, Ishtar o Iside. A prescindere dal nome adottato, l’essenza della Dea era sempre la stessa. Vediamo però più da vicino la dea dimenticata dell’Antico Testamento.
El, il dio supremo dei Cananei, aveva una compagna di nome Athirat, considerata la Madre degli dèi (si diceva infatti che avesse generato settanta divinità); di lei ci parlano di testi di Ugarit e la figura che emerge è quella della Dea Madre, saggia e potente, a cui lo stesso dio El o gli altri dèi si rivolgevano per avere consigli e aiuti. Associata all’Albero della Vita, la dea Athirat è ritratta come Dea Madre sul coperchio di una scatola d’avorio per unguento trovata a Ugarit e risalente al 1300 a.C.:
è ritratta con indosso una gonna elaborata, gioielli e, come le sacerdotesse minoiche, ha il seno nudo; i suoi capelli sono finemente acconciati ed il suo volto è sereno e sorridente. Nelle sue mani tiene dei covoni di grano, che offre a una coppia di animali.
Nella Bibbia il nome di Athirat non compare ma la dea è comunque presente nella figura della dea Asherah, ritenuta la paredra di Yahweh. Per il sincretismo citato, è plausibile che, se El era unito alla dea Athirat, così Yahweh – avendo assorbito in sé aspetti del dio El - avesse al suo fianco Asherah. Quest’ultima era chiamata “Madre degli dèi” e “Signora del Mare”, titoli che condivideva con Athirat.
Sembra plausibile supporre che, dietro il nome di Asherah, vi sia in realtà Athirat, la paredra del dio El.
Le due dee sembrano coincidere ed essere la medesima espressione della Dea Madre, antica e universale, senza la quale la vita non può sussistere.
La Bibbia rivela che in onore di Asherah venivano innalzati altari e scolpite immagini[17] e consacrati templi, che aveva molti sacerdoti dediti al suo culto[18] e nel suo nome avveniva la “prostituzione sacra”[19] o ierogamia; tale pratica era molto antica e ampiamente diffusa nei culti del mondo antico e veniva considerata un’alta forma devozionale e propiziatrice i riti di fertilità e abbondanza. L’uomo e la donna che compivano il rito assumevano il ruolo di coppia archetipale divina, divenendo contenitori viventi della Dea e del Dio.
In loro rivivevano le coppie divine di Inanna e Dumuzi, Ishtar e Tammuz, Iside e Osiride, Cibele e Attis, Afrodite e Adone. La loro unione sessuale, sacra e solenne, assicurava prosperità e la continuazione del ciclo di vita-morte-rinascita; di ciò abbiamo diffusamente trattato nel saggio La dea delle origini.
Tuttavia, come chiaramente espresso nel Libro del Deuteronomio, Yahweh aveva proibito ogni forma di prostituzione sacra sia per le donne sia per gli uomini[20].
La parola ‘Asherah’ ricorre quaranta volte nell’Antico Testamento, a volte al singolare e talvolta al plurale Sebbene nella maggior parte dei casi si riferisca a un oggetto di culto in legno, in molti altri è chiaro che si riferisce alla dea in persona[21]. Ad alimentare l’ipotesi della presenza di una paredra al fianco di Yahweh sono state delle iscrizioni rinvenute durante alcune campagne archeologiche degli anni ’70 del secolo scorso presso l’area settentrionale del Sinai; le iscrizioni riportavano invocazioni a diverse divinità ben note e diffuse nel territorio di Canaan, quali Baal, El e Yahweh.
Particolare clamore suscitò il ritrovamento di un’invocazione molto esplicita, risalente all’VIII secolo a.C., in cui si riceveva la benedizione da parte di Yahweh e della sua Asherah[22].
Come detto, nella Bibbia la parola “Asherah” può riferirsi sia alla dea che alla sua immagine di legno intagliato, nessuna delle quali è sopravvissuta[23] sino ai nostri giorni; sappiamo che una sua immagine è stata a lungo conservata nel Tempio di Gerusalemme, benedicendo tutti colori che le bruciavano incensi o le offrivano libagioni. Le citate figure femminili ritrovate in Palestina e datate tra il 2000 e il 600 a.C. forse appartenevano al culto di Asherah, a cui le donne si rivolgevano per avere protezione durante il parto o perché concedesse loro fertilità[24].
Le figurine a pilastro sono manufatti archeologici religiosi unici, risalenti all’età del ferro. Sono figure femminili fatte di argilla, alte circa 10-20 cm, la cui parte inferiore è modellata a mano a forma di pilastro con una base ad imbuto e i cui seni sono in evidenza. Ci sono due tipi di testa: una semplice con il volto che ricorda quello di uccello, e una versione più elaborata fatta con uno stampo. Generalmente sono bianche ma in origine forse venivano anche dipinte, infatti alcuni esemplari conservano tracce di vernice rossa e nera. Le figurine a pilastro sono state spesso intese come una forma di continuità, in Israele, del culto della dea Asherah, e quindi come una prova del radicato politeismo cananeo nel tessuto religioso delle tribù israelite, almeno fino al tempo della cattività babilonese[25].
Un altro oggetto di culto erano le asherim, menzionate nella Bibbia, che potevano essere pali di legno o alberi veri, rievocando così il simbolismo che legava la Dea Madre all’Albero della Vita. Le asherim forse erano sicomori, tanto cari a Iside, o gelsi neri. Che fossero alberi o effigi di legno, le asherim andavano distrutte poiché fomentavano l’empia idolatria. Per questo i profeti di Israele ordinavano:
«Distruggerete i loro altari, farete a pezzi le loro stele e taglierete i loro pali sacri (le asherim, nda). Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso»[26].
«Brucerete nel fuoco le statue dei loro dèi e cancellerete il loro nome da quei luoghi»[27].
«(re Giosia) Fece a pezzi le stele e tagliò i pali sacri, riempiendone il posto con ossa umane»[28].
E Yahweh non era da meno:
«Se, nonostante questi castighi, non vorrete correggervi per tornare a me (cioè rigettare i culti politeisti cananei, nda), mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò»[29].
«[…] mi hanno abbandonato e si sono prostrati davanti ad Astarte, dea di quelli di Sidone.[30]
Asherah, come Athirat, era la Dea Madre così profondamente radicata nel cuore e nelle memoria del genere umano da rendere impossibile pensare all’esistenza, terrena o celeste, senza di lei. Eppure questo è accaduto.
La Dea Madre è stata deposta dal suo trono e posta in un angolo, per esser poi dimenticata.
È possibile che la monolatria e poi l’affermazione del monoteismo da parte dei sacerdoti di Israele abbiano determinato la rilettura in chiave malvagia della dea. Lei, come gli altri dèi stranieri, era un abominio che offendeva e minava l’assolutismo religioso di Yahweh e per questo andava eliminata.
Il Libro dei Giudici, ad esempio, riporta l’empia seduzione prodotta dai culti cananei:
«[i figli di Salomone, nda] costruirono alture, stele e pali sacri su ogni alto colle e sotto ogni albero verde»[31].
«Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dalla terra d’Egitto, e seguirono altri dèi tra quelli dei popoli circostanti: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e le Astarti»[32].
«Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme»[33].
Non vi è dubbio che gli scrittori biblici del post esilio furono implacabili nel condannare il culto della Dea, largamente diffuso tra i sovrani e il popolo, alfine di consolidare la struttura socio-religiosa patriarcale e monoteistica.
Propongo di seguito una tabella riassuntiva delle varie citazioni della dea Asherah:
Un altro nome con cui la Dea Madre veniva adorata era Astarte che, come Ishtar e Inanna, si pregiava dell’appellativo di “Regina del cielo”. Astarte, in quanto epifania della Dea madre, era la progenitrice di tutti i viventi e signora di molte città. L’iconografia ricorrente la vede ritratta nuda mentre stringe i seni oppure allatta un bambino; altre volte indossa una corona e una collana e tiene un fiore di loto in ogni mano; i suoi capelli sono disposti nella maniera stilizzata della dea egizia Hathor[34].
I redattori biblici non sono stati precisi nel differenziare con chiarezza il culto di Asherah e di Astarte, è anzi possibile che ad un certo punto abbiano confuso i due culti e legato Asherah ad Astarte poiché quest’ultima era particolarmente diffusa nel Vicino Oriente; ai loro occhi ogni dea doveva apparire come una minaccia al culto di Yahweh e pertanto andava indistintamente combattuta ed estirpata. Essa, insieme alle loro sacerdotesse, era considerata l’empia fonte dell’idolatria. Essa, con le effigi lignee, le sculture e il rituale ierogamico, avevano decretato, agli occhi dei redattori biblici, la fine di Samaria per mano Assira (nel 722 a.C.) e infine la fine di Giuda a causa dei Babilonesi (nel 587 a.C.) e per questo era blasfema, impura e orripilante in ogni sua manifestazione.
Eppure per millenni la Dea Madre ovunque e in qualunque forma fu percepita come sacra, vivente e immanente al creato, principio divino garante di equilibrio e di armonia, terrena e cosmica.
In tale ruolo compare agli inizi della narrazione biblica, con il nome di Eva, in ebraico Ḥawwah; lei era “l’artefice della vita umana” in quanto madre di tutti i viventi[35], e il suo nome, come evidenzia lo storico delle religioni Mircea Eliade,
«è di fatto un gioco di parole sul nome “vita” (ebr. ḥay) poiché sia Ḥawwah che ḥay riprendono l’antica parola semitica (aramaica, fenicia e araba) che significa “serpente”, come fecero notare gli antichi rabbini. Qui è bene ricordare un altro affascinante gioco di parole interculturale, alla base di alcuni motivi chiave della narrazione biblica: in un mito sumero, Enki avverte un dolore alla costola e Ninhursaga crea da lui Ninti (donna della costola). Singolarmente, il logogramma sumero ti (presente nel nome della dea) significa sia “costola”» che “vita”[36]».
La nota vicenda di Eva nel giardino dell’Eden ci narra a distanza di millenni non della dannazione dell’umanità quanto della deposizione e della demitizzazione della Dea Madre; spogliata della sua numinosità, ella diviene esattamente l’opposto di ciò era sin dall’inizio dei tempi: non più foriera di vita e rinascita ma causa di rovina, peccato e dannazione.
L’eco immortale dell’antico culto della Dea Madre risuona nel mito in attesa di riprendere il posto che le appartiene.
Note [1] Per approfondimento si veda della stessa autrice Yahweh dio della guerra, da Signore degli eserciti a Dio, Uno Editori, Torino, 2021. [2] 1Re 11, 1-5. [3] Lv 20, 2-5; Dt 17, 2-7. [4] Dt 13, 1-5; 13, 6-11; 18, 20-22. [5] Dt 13, 12- 18. [6] Ger 44, 7. [7] Nm 32, 13. [8] Dt 4, 25. [9] Dt 9, 18. [10] Ger 7, 18. [11] Ger 44, 17. [12] Ger 44, 17. [13] GER 44, 18. [14] M. J. Winn Leith, The Oxford Encyclopedia of the Books of the Bible, a cura di Michael D. Coogan, Oxford University Press, 2011, p. 252. [15] Ibidem, p. 241. [16] Ibidem, p. 874. [17] 1Re 15, 13. [18] 1Re 18, 19. [19] 2Re 23, 7. [20] Dt 23, 18. [21] J. Day op. cit., p. 43. Si vedano i passi biblici: Gdc 3,7; 1 Re 15,13; 18,19; 2 Re 21,7; 23,4. [22] S. Tosi, Yahweh dio della guerra, Uno Editori, Torino, 2021. [23] A. Baring, J. Cashfrd, Il mito della dea, Venexia edizioni, Roma, 2017, p.589. [24] Ibidem. [25] Con “cattività babilonese” ci si riferisce alla deportazione dell’élite sociale di Gerusalemme presso Babilonia dopo che il sovrano babilonese Nabucodonosor aveva conquistato la capitale del regno di Giuda nel 586 a.C. [26] Es 34, 13-14. [27] Dt 12, 3. [28] 2 Re, 23, 14. [29] Lv 26, 23-30. [30] 1 Re 11, 33. [31] 1Re 14, 23. Stele, pali e alberi sono richiami alla dea e al suo culto. [32] Gdc 2, 11- 13 [33] 2 Cr 24, 18. In questi versi è chiaramente espressa la dottrina della retribuzione, infatti il peccato di idolatrai è stato putino da Yahweh con i tragici eventi del 722 a.C. e del 587 a.C. Gli autori biblici ci tennero a metterla bene in evidenza affinché il popolo si stringesse attorno al culto monoteistico di Yahweh e non ripetesse gli errori del passato, causando nuove tragedie. [34] Ibidem, p. 593. [35] Gn 3,20 [36] Dizionario dell’Ebraismo (A-I), a cura di M. Eliade, Jaca Book, Milano, 2020, p. 604.
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