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HATHOR - IL GREMBO CELESTE



La Dea Hathor- protrettirce del faraone e madre celeste
La dea Hathor con i suoi attributi iconici: corna bovine e disco solare.

La sua immagine è una delle più potenti dell'antico Egitto: la splendente dea Hathor, la madre cosmica che regge il disco solare tra le corna bovine, proteggendo il sole fanciullo a ogni nuova alba.

Amata da Ra, venerata come "Signora della vita", il suo retaggio è immensamente più antico dell'Antico Regno. Affonda le sue radici nei rituali neolitici del deserto, in luoghi come Nabta Playa.


Millenni prima dei faraoni, un antico popolo del Sahara venerava già una Dea-Vacca, simbolo di fertilità legato al sorgere della stella Sirio, che annunciava le piogge vitali. Hathor è l'erede diretta di questo archetipo primordiale, la "grande giovenca che creò il cielo dall’oceano primordiale".


Il cuore pulsante del suo culto fu Dendera, uno dei templi più maestosi e meglio conservati, edificato sulla riva occidentale del Nilo. La sua sacralità attraversò le ere: forse iniziato da Pepi I, onorato dalla XVIII dinastia e infine magnificamente ampliato in età tolemaica.


Qui, Hathor era venerata come "la dimora di Horo" – un epiteto che svela il suo ruolo di madre celeste che ogni mattina partoriva Horus, il sole. Nelle sue rappresentazioni, anche quando antropomorfa, conserva sempre le orecchie bovine o l'acconciatura con le corna, ricordo della sua origine cosmica.

Ma la sua essenza era un prisma dalle mille facce. Al pari di Neith, Hathor incarnava il Nun, la fonte caotica della vita.

Era la luce stessa, ma anche la Sapienza (come Seshat, la signora della casa dei libri) e il ciclo della natura (come Sothis, la stella che annunciava la piena del Nilo).


In lei risiedeva l'intero ciclo della Natura, il potere creativo ma anche quello distruttivo.

Questo ci porta al suo lato terrificante. Hathor è anche Sekhmet, la "selvaggia leonessa dagli occhi fiammeggianti, terrificante... divorando carne e sangue dei suoi nemici". Eppure, nello stesso respiro, è la dea "dell’amore, della gioia, della musica, della danza e dell’ebbrezza estatica".


Prima che il culto di Iside e Osiride diventasse il fenomeno nazionale che conosciamo (un successo iniziato nel Medio Regno e destinato a conquistare persino Roma), era Hathor a contenere in sé l'archetipo completo del Femminino Sacro egizio.

la dea Nut - dea del cielo
La dea Nut, dea del cielo, qui rappresentata come Vacca Celeste. Da lei costellata di stelle ogni mattina nasce il sole, Ra. Copia di una pietra tombale del 1300 a.C.

La sua simbologia (il toro, il sole) è la diretta prosecuzione dei miti ancestrali nati attorno ai fuochi dei clan neolitici. Possiamo immaginarli, mentre si scambiavano statuette della dea, narravano l'origine del mondo, esorcizzavano le paure e nutrivano speranze. Stringere quel simulacro avvicinava a una dimensione invisibile, che fosse la dimora degli spiriti o degli antenati.


Questa è la chiave della teologia egizia: non esisteva un limite invalicabile tra il visibile e l'invisibile. La vita terrena era solo parte di un viaggio cosmico.


Hathor, madre della vita ma anche dispensatrice della morte, presiedeva alla rigenerazione. Esattamente come le Janas sarde, le sacerdotesse minoiche o le dee-madri di Çatalhöyük, Hathor era il grembo celeste da cui la vita rinasce in perpetuo. Non a caso, la mitologia la lega indissolubilmente a Nut, la splendente dea del cielo.

Più di ogni altra, l'immagine di Nut incarna l'intero cosmo. La sua raffigurazione più frequente è quella di una donna gigantesca, il corpo nudo e incurvato a formare la volta celeste, trapunto di stelle. Il suo ruolo è duplice e sublime: con il suo corpo abbraccia tutto il creato, dando la vita e, al contempo, accogliendo le anime dei defunti nel suo grembo stellato per l'eternità.

Un'iscrizione sul Sarcofago di Ankhes-nefer-ib-ra lo esprime con una poesia struggente:

«Tua madre è il Cielo (Nut), Lei si estende su di te, Tu entri nella sua bocca (al crepuscolo della vita umana) Esci dal suo grembo come il sole, ogni giorno (rinasci a vita eterna fra le stelle).»

La sua funzione è cristallina. Non è un caso che i suoi epiteti siano “la Grande”, “Madre degli dèi” e, soprattutto, “Colei che genera Ra ogni giorno”. Alla stregua di Hathor e Neith, Nut è la madre cosmica che garantisce l'ordine e la ciclicità: inghiotte il sole a ogni tramonto per partorirlo, rinnovato, ad ogni alba.


testa stilizzata di divinità bovina
testa stilizzata della “Vacca Celeste”3500-3100 a.C.;

Ma questa forma femminile non è la sua unica, né la più antica, identità.

Nut, infatti, appare frequentemente nelle sembianze di Vacca Celeste (Mehet-uret), senza dubbio la sua forma primordiale. In questo aspetto, la sua identità si fonde quasi completamente con quella di Hathor. L'addome stellato della vacca divina è il cielo stesso, e dal suo ventre fuoriesce ogni mattina la barca solare di Ra. Nut celeste e Hathor-Meheturet sono, in essenza, lo stesso potere cosmico di rigenerazione solare. Per questo, pur essendo una divinità fondamentale, Nut non ebbe mai un centro di culto specifico: era ovunque, assimilata alle altre grandi dee.

Esiste un simbolo finale che salda questa profonda convergenza, unendo Nut, Hathor e persino Iside in un unico archetipo: l'albero sacro del sicomoro.


Questo albero dimostra la natura "Una e Molte" della dea primordiale. Era considerato sacro in tutto l'Egitto perché le sue fronde e la sua ombra fresca evocavano protezione e pace: si credeva che le anime dei defunti, sotto forma di uccelli, vi si posassero per riposare.

L'albero era un'estensione della dea stessa.

Un'antica e celebre raffigurazione mostra il faraone Tuthmosis III mentre viene allattato direttamente da un sicomoro. Quell'albero è Hathor, la "Signora del Sicomoro", colei che produce cibi e bevande per il defunto, garantendone la vita eterna.

Ed è proprio qui che il cerchio si chiude: Hathor, come Nut, è anche "Signora dell'Occidente" e regna sulla terra dei defunti, il luogo dove si compie la rinascita a una nuova, luminosa esistenza.

La protome taurina che definisce la dea Hathor non è un simbolo isolato. È un nodo enigmatico che la lega a un mistero condiviso con la Sardegna preistorica delle domus de Janas, con la Creta minoica e con la profonda Anatolia.

Il centro di questo mistero è la giovenca. Essa è l'incarnazione vivente della divinità che nutre l'umanità. Il suo latte è il nutrimento primo, un riflesso sacro del latte donato dalla madre al figlio, e un simbolo dei frutti che la terra offre a ogni creatura.

Questa idea di una "generosità femminile universale" che si rinnova costantemente è un archetipo globale. Presso la cultura Veda si onorava la «vacca occulta», l'aurora primordiale – un mito in perfetta sintonia con la creazione luminosa dal Nun egizio. Nel Bhagavad Gītā, è la "vacca dei desideri" a prefigurare l'abbondanza, e la terra stessa è chiamata "donatrice di ricchezze".


Da qui, da questo concetto di nutrimento divino, nasce una delle iconografie più potenti e universali della storia umana: la divinità madre che allatta il figlio divino. La vediamo in Iside con Horus, in Hathor con il giovane sole, e millenni dopo nella Madonna con Gesù bambino. Per l'Egitto, questo non era solo un gesto d'affetto: l'allattamento era un atto magico, la trasmissione dell'essenza divina più pura.

Ma la vacca non è solo vita e nutrimento. È anche colei che rassicura e protegge nel momento del trapasso.


Questa finalità consolatoria è, molto probabilmente, il motivo per cui varie popolazioni neolitiche sentirono il bisogno di decorare le pareti delle loro tombe con protomi taurine. Era un simbolo di rinascita. L'archeologa Marija Gimbutas ha offerto una spiegazione stupefacente: il bucranio (il teschio del toro) è una rappresentazione visiva dell'utero, dove la somiglianza tra la testa del toro con le sue corna e l'utero della donna con le trombe di Falloppio è lampante.

Ed è proprio qui che il cerchio si chiude e torniamo in Egitto.


Questa eredità archetipa, forse tramandata attraverso Neith e poi Hathor, trova la sua massima espressione in Nut. La valenza simbolica della Vacca Celeste è legata indissolubilmente a questo "utero cosmico". È dal grembo della dea Nut che il sole viene partorito ogni singola mattina.


Questo parto celeste non era un mito astratto. Era l'orologio che regolava la vita. I ritmi stagionali agrari – la piena, la semina e il raccolto – dipendevano da questa ciclicità solare. Tutta l'esistenza lungo le rive del Nilo, dal contadino al sovrano, si muoveva seguendo questo ritmo ancestrale, scandito dallo sguardo di Sirio e dallo splendore di Ra (il sole) e Iah (la luna).


Sebbene il culto della Vacca Celeste, come abbiamo visto, affondi le radici nel predinastico e nella preistoria (legandosi a Neith), l'Hathor che conosciamo inizia la sua ascesa "ufficiale" in un momento preciso. È con la XI dinastia, attorno al 2000 a.C., che la sua identità si lega al tempio di Montuhotep.

Lì, un culto popolare preesistente per una divinità bovina locale venne assorbito e assimilato alla grande Dea di Dendera. Fu un momento chiave: da allora, Hathor divenne indissolubilmente associata alla regalità. Divenne la protettrice del faraone, e la regina stessa iniziò a essere identificata come l'incarnazione terrena della dea.


Fulgente e potente, Hathor divenne così lo specchio di tutti gli aspetti arcaici del femminino nel pantheon egizio. Incarnava l'essenza stessa del rinnovamento.


Prometteva speranza: non solo una vita prospera sulla terra, ma anche una gioiosa rinascita nell'aldilà. Il suo compito, infatti, era quello di rendere sacri, ungere e far rinascere i defunti nell'Occidente (la terra dei morti), replicando ogni notte il miracolo che compiva ogni alba con Ra, il sole.

Questa grandezza non è un'ipotesi. È scolpita nella pietra. Nella Sala delle Offerte del suo tempio a Dendera, un inno tramandato nei millenni ci parla direttamente:

«O regina degli dèi, egli (il faraone) ti riverisce: dagli vita! Guardalo, Hathor, Signora, dal cielo, guardalo, Hathor, Signora, dalla terra della luce, ascoltalo, o fiammeggiante, dall’oceano!»

Non era solo un culto di stato; era una fiducia personale e profonda. Il faraone Horemheb (XVIII dinastia, XIII sec. a.C. [3]) si fece ritrarre nell'anticamera della sua tomba non semplicemente davanti alla dea, ma stretto nel suo abbraccio. Affidava a lei, fisicamente, il successo del suo viaggio nell'aldilà.

Questo archetipo della vacca nutrice, che abbiamo visto in Egitto e nei Veda, trova un'eco sorprendente persino nei miti germanici. Lì si adorava Audumla, la vacca primordiale nata prima degli dèi stessi. Dalle sue mammelle sgorgavano fiumi di latte che nutrirono Ymir, il gigante da cui tutto ebbe origine.

Il gesto di Horemheb, quell'abbraccio scolpito per l'eternità, è la sintesi perfetta di questa fede universale.

Dopotutto, chi meglio di Colei che faceva nascere in perpetuo Ra, poteva garantire la resurrezione tra le stelle?
La Dea delle Origini, ilmio libro.
La Dea delle Origini, ilmio libro.

 
 
 

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