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Lettere per l'aldilà!


Il Ba - rappresentazione dell'anima del defunto-

La luce della torcia danza sulle pareti della cappella funeraria, proiettando ombre tremolanti sui geroglifici che celebrano la vita di suo marito. L'aria è fresca e sa di polvere millenaria e del fumo denso dell'incenso appena spento. La donna, Merit, si inginocchia davanti alla falsa porta, il punto di contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Tra le mani non stringe un papiro prezioso, ma una semplice ciotola di ceramica rossa, ruvida al tatto. Con un sussurro che è quasi un sibilo, legge le parole che un scriba ha tracciato per lei sulla sua superficie con inchiostro nero.










"Allo spirito eccellente di Ankhtifi. Tua moglie, Merit, che fa vivere il tuo nome. Ti ho forse mai fatto un torto? Ho custodito la tua casa, ho onorato la tua memoria con acqua, pane e birra ogni giorno. E come mi ripaghi? Nostro figlio giace malato, la febbre consuma le sue carni. È opera tua, spirito inquieto? Se è così, ascoltami: aiuta tuo figlio a guarire, o porterò la nostra disputa davanti al grande tribunale degli dei, e la tua pace nell'aldilà non sarà più così certa..."

Questa scena, pur immaginaria, ci spalanca le porte su una delle pratiche più affascinanti e intimamente umane dell'antico Egitto: le "lettere ai defunti". Missive che non erano semplici ricordi, ma veri e propri strumenti di negoziazione, supplica e, a volte, di aperta minaccia con il mondo dell'aldilà.


Un mondo sottosopra


Per capire l'origine di questa usanza, dobbiamo viaggiare indietro nel tempo, fino al Primo Periodo Intermedio (2160-2055 a.C.). Dimenticate l'immagine di un Egitto monolitico e onnipotente. Quella fu un'epoca di caos. Il potere centrale del faraone si stava sgretolando, lasciando il campo a governatori locali, i nomarchi, sempre più potenti e ambiziosi. L'incertezza politica e le tensioni sociali scuotevano la vita quotidiana, generando un profondo senso di precarietà.

Fu proprio in questo clima instabile che la mentalità religiosa egizia subì una trasformazione radicale. L'idea di un'aldilà stabile ed eterno, un rifugio perfetto dalle tribolazioni terrene, si radicò profondamente in ogni strato della popolazione. Il culto di Osiride, il dio dei morti e della rinascita, esplose in tutta la sua potenza, promettendo a tutti, e non solo al faraone, la possibilità di una vita eterna.

Parallelamente, un cambiamento più umile ma altrettanto significativo avveniva nelle case e nelle botteghe. Materiali costosi come la faience, la pietra o il metallo, usati per creare vasi e oggetti, vennero sostituiti dalla più economica e versatile ceramica. I cocci divennero la nuova tela per la vita di tutti i giorni, e persino un nuovo supporto per la scrittura, dando vita a questa incredibile forma di comunicazione con l'oltretomba.


È colpa tua, spirito!


Le lettere per l'aldilà, scritte su vasi di ceramica e deposte nelle cappelle tombali, erano molto più che un ricordo. Erano un'invocazione magica, un canale diretto con un familiare defunto, quasi sempre scritte in momenti di grande sfortuna. La credenza di base era semplice: i morti non erano scomparsi, ma continuavano a esistere su un altro piano, da cui potevano ancora influenzare le vicende dei vivi.

A volte, la sfortuna era vista come un intervento diretto del defunto. Uno spirito inquieto, un'"anima" che non aveva ancora trovato pace, poteva essere la causa di malattie, perdite o carestie. La lettera diventava allora un appello, un modo per ricordare al morto il buon trattamento ricevuto in vita e le continue offerte funerarie. Il messaggio era chiaro: "Ti abbiamo onorato e ti onoriamo ancora. Sii generoso, allontanati e porta via con te questa sventura". Altre volte, invece, si chiedeva un intervento attivo: un consiglio per una disputa, un aiuto per guarire o la benedizione per concepire un figlio.


Non solo preghiere


Ma non immaginatevi uno stile sempre supplichevole. La relazione tra vivi e morti era sorprendentemente pragmatica, quasi contrattuale. Se le preghiere non funzionavano, il tono cambiava drasticamente, diventando esigente e persino minaccioso.

Non era raro che il parente vivente mettesse il defunto con le spalle al muro, minacciando di denunciarlo a un tribunale celeste, presieduto da divinità come Thot o Osiride stesso, se non avesse compiuto i suoi "doveri" di antenato protettore.

E se neanche questo bastava, si ricorreva all'arma finale, la minaccia più terribile di tutte: interrompere il culto funerario. Smettere di portare acqua, pane e birra alla sua tomba. Per un Egizio, questo significava la "seconda morte", la fine di ogni sostentamento nell'aldilà, la condanna a una fame e a una sete eterne.

Un ricatto potentissimo, che ci svela una relazione con l'oltretomba fatta non solo di amore e venerazione, ma di obblighi reciproci, di aspettative e, quando necessario, di aperta ostilità.

Queste lettere di ceramica, quindi, sono molto più di un reperto archeologico. Sono la voce di persone reali, piene di speranza, rabbia e disperazione, che guardavano all'aldilà non come a un abisso silenzioso, ma come a un indirizzo a cui spedire le proprie, umanissime, lamentele.


 
 
 

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