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Giovanna d'Arco - fanciulla, guerriera, santa.

Prima parte. La chiamata.



Maggio odoroso spandeva l’aroma inebriante le sue promesse di abbondanza e fecondità.

Riempiva l’aria di pollini che facevano prudere il naso e ridere i bambini che si divertivano a correre alle quelle matasse, leggere e soffici. A tratti sembrava fosse gennaio e che nevicasse. Invece era primavera inoltrata, dalla temperatura mite e con le messi folte. Le giornate sempre più lunghe regalavano qualche attimo di svago in più: una fuga romantica tra i campi, un tuffo al fiume, un falò notturno.



Gli incontri ai piedi del faggio avvenivano tra risatine e trepidante attesa, qualche piccola fata si sarebbe mostrata? Il bisbiglio del vento stuzzicava i giovani cuori, assetati di emozioni; scompigliava i capelli, sfiorava una guancia e nell’euforia della danza le mani si sfioravano e le labbra si toccavano.


Tutt’attorno la luce dorata faceva brillare le giornate come le vetrate della chiesa.

Tutto sembrava più vivo: i profumi, i colori dell’erba e del cielo, persino il belare della capre suonava più dolce.

Poteva essere diversamente nel dolce mese della Santa Vergine?


In un maggio simile a questo del 1425 circa una ragazzina di tredici anni, figlia di piccolo proprietario terriero, che viveva nel piccolo villaggio di Domrémy, sulla riva sinistra della Mosa, sentì delle voci. Un lampo di luce buono, che veniva da destra, dalla parte della chiesa, e quell’invito risoluto a liberare la Francia dall’invasore e porre sul trono il legittimo sovrano, il delfino Carlo VII.


Chi era questa ragazzina? Lei era Giovanna o Jeannette, come la chiamavano quelli del suo paesino. Che aspetto aveva Giovanna? Di preciso nessuno lo sa. Io me la immagino minuta, dal sorriso irregolare, con le lentiggini e lo sguardo sognante, sereno ma velato di inquietudine.

Era l’inquietudine dei tempi che dalla metà del Trecento aveva travolto ogni angolo dell’Europa occidentale.


Il clima s’era fatto improvvisamente rigido e spigoloso. Nella sua stretta perivano i raccolti, così in tavola vi era assai poco con cui riempire lo stomaco. Tutto ciò abbassava le difese immunitarie ed esponeva alle terribili febbri che colpivano soprattutto i più giovani.

La peste, poi, dal 1348 aveva decimato la popolazione, instillato angoscia e paura, fatto toccare con mano la fragile consistenza della vita umana. Come una falce, a cadenza regolare, il terribile morbo si abbatteva su uomini, donne e bambini, di ogni ceto ed età, e li uccideva.


Processioni, invocazioni, flagellazioni, digiuni, pellegrinaggi, nulla sembrava sufficiente a placare la corse dei cavalieri della Apocalisse: Fame, Guerra, Malattia e Morte cavalcavano con costanza e caparbietà, calpestando città e generazioni intere.

Le fonti storiche sono abbastanza certe al riguardo, la popolazione europea nella seconda metà del Trecento calò di circa il 30 %. Era il trionfo della morte sulla vita e innanzi all’invisibile male solo l’impalpabile fede. Ecco allora che esser un pio e buon cristiano si faceva ancor più urgente che in passato, se si voleva sperare di accedere al Paradiso.


Intanto c’era la guerra che danneggiava i campi, seminava terrore e morte, e diffondeva malattie. Dal 1337 infatti la Francia era entrata in conflitto con l’Inghilterra di Edoardo III che si sentiva defraudato del suo diritto al trono, ora vacante dopo la morte senza eredi maschi di Carlo IV, l’ultimo dei capetingi.

Tra battaglie e tregue, nuovi sovrani e solite rivendicazioni, l’orgoglio francese fu calpestato dai cavalli inglesi sul campo di battaglia di Azincourt nel 1415. Là, poco distante dal porto di Calais, re Enrico V fece la storia, sottomettendo i nemici e stringendo tra le mani la corona francese…


Eh sì, gli algidi inglesi avevano fatto il colpaccio!
Ora la Francia era spartita come una torta Sant’Honoré. Inglesi a nord-ovest, a est i Borgognoni, alleati degli inglesi, e a sud della Loira “regnava” il delfino, schernito da tutti come il re di Bourges.

Nel piccolo villaggio di Domrémy, dicevamo, viveva Giovanna, che parlava con San Michele, Santa Caterina di Alessandria e Santa Margherita d’Antiochia. La prima morì da martire nel IV secolo ad Alessandria d’Egitto dopo che spinse alla conversione al cristianesimo molti pagani della corte dell’imperatore Massimino; la seconda, anch’essa vergine e martire, cadde durante le persecuzioni di Diocleziano. Le pie donne venivano venerate come sante e modelli di virtù, castità e sacrificio, in tutta Europa, pertanto si trattava di nomi noti e dalla fama risaputa.

Vicino al paesino di Giovanna, per esempio, si trovava un santuario dedicato a Sanata Caterina e si può ipotizzare che per qualche speciale occasione la ragazzina lo avesse anche visitato, di certo ne conosceva l’esistenza.

Allo stesso modo Giovanna sapeva della vita straordinaria di numerosi santi e sante che avevano dato la vita per il trionfo della vera fede. La mente di Giovanna doveva essere particolarmente suggestionabile e sensibile a certe tematiche, le sue voci, a volte accompagnate da brevi visioni, sembrano essere sintomo di un radicato stress emotivo: l’occupazione inglese, la peste che di tanto in tanto agitava la sua falce, le cattive annate di raccolto e le conseguenti carestie.


Quanto era pesante la mano di Dio e quanto era misteriosa la sua volontà?

Giovanna, come le generazioni precedenti, era cresciuta stretta in un clima di persistente precarietà. La sua aspettativa di vita era alquanto breve, 40 anni circa, e il suo compito primario era quello di spossarsi e generare figli, molti figli perché la mortalità infantile era elevatissima. Come tutte le ragazze di quel periodo, la sua quotidianità era fatta di faccende domestiche, tessere e filare, di preghiere e canti; nei giorni di festa andava in chiesa con la famiglia. Tutto qui. Niente scuola, niente libri. Niente sapienza.


La nostra piccola Giovanna non sapeva né leggere e né scrivere e la sua conoscenza del mondo era circoscritta ai racconti della Bibbia e delle battaglie e dei saccheggi inglesi che tormentavano la sua terra.

Tra il 1425 e il 1428 gli anglo-borgognoni avevano seminato il terrore nelle campagne della Mosa, prendendo di mira i villaggi fedeli al delfino, lasciando dietro di sé una macabra scia di violenza e sangue.


Tuttavia, la benevolenza divina aleggiava sulla Francia, in special modo la spada di San Michele vibrava forte e ferma contro gli invasori. Ciò lo dimostrava l’evento del 1427 allorché Mont Saint-Michel avesse strenuamente resistito agli assalti inglesi, uscendone vittorioso.


Giovanna però non voleva sposarsi con il giovane che i suoi avevano scelto, lei sentiva l’urgenza del tempo, sentiva premere al suo fianco la spada di San Michele, lei aveva una missione da compiere. E senza timore di essere schernita, derisa o creduta pazza, ne parlava tanto e a tutti. E quantunque ciò accadesse, lei non se curava, ben alti erano gli emissari a cui doveva render conto, non certo gli ingenui compaesani.





Nel 1428 nel villaggio di Domrémy e quelli limitrofi sapevano di lei e delle sue voci. Il nome di Giovanna era divenuto famoso, tanto giunge alle orecchie del capitano della piazza di Vaucouleurs, Robert de Baudricourt, che delle farneticazioni di una ragazzina proprio non ne vuole sapere. Ciononostante, come sappiamo, alla fine il capitano acconsentirà a parlare con Giovanna e poco dopo quell’incontro, fece preparare una scorta armata alla quale assegnò il compito di accompagnare Giovanna dal delfino. Questi, infatti, informato da Robert de Baudricourt, aveva deciso di incontrare la vergine che diceva di voler liberare la Francia.


Così, a soli 17 anni Giovanna partì, lasciò la casa paterna, il quieto villaggio, la vita a cui era predestinata, e, vestita da uomo, insieme ad alcuni soldati, iniziò la sua marcia verso l’immortalità.


Lei non lo sapeva ma quelli che si aggiungeva a vivere erano gli ultimi due anni della sua esistenza, fatta di attimi di gioia e gloria, ma anche di delusione e tradimenti.

Lei si sarebbe trovata in mezzo a dispute politiche e ad astuzie religiose da cui non si sarebbe salvata. Questo però lei quel giorno non lo sapeva e con l’ingenua spavalderia della adolescenza e l’euforia estatica dei visionari se ne andava incontro alla morte. Seicento chilometri più a sud l’attendeva il castello di Chinon dove il “suo dolce delfino”, come lo chiamava Giovanna, viveva.

Continua...

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