La fanciulla dei ghiacci: una vita offerta al dio vulcano
- Stefania Tosi
- 4 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 13 giu

Dove il cielo tocca gli dèi
Le cime innevate delle Ande si stagliano come giganti immobili contro un cielo purissimo. Al centro di quel maestoso scenario si erge il vulcano Ampato, sacro e temuto. Gli Inca lo chiamavano Apu, spirito della montagna, protettore delle acque e della fertilità. Quando l’Apu si adirava, la terra tremava, la neve si scioglieva, e colate incandescenti scorrevano divorando la vita.
Per placarlo, bisognava scalare l’impervia vetta, sfidando gelo, fame e vertigini, e celebrare là in alto il confine tra mondo terreno e mondo divino. Il vulcano non era solo una montagna: era un huaca, un luogo sacro dove il velo tra gli uomini e gli dèi si faceva sottile. Solo lì, sul tetto del mondo, si poteva offrire il sacrificio più prezioso.
Il rito della Capacocha
Tra le pratiche religiose più solenni e complesse vi era la capacocha: un sacrificio rituale che coinvolgeva bambini e adolescenti, scelti per la loro purezza fisica e spirituale. Quando una calamità si abbatteva su un territorio, o quando un evento importante richiedeva l'intercessione divina, il popolo si rivolgeva alle montagne sacre con offerte eccezionali.
I giovani prescelti erano accompagnati da sacerdoti e lama, caricati di doni come cibo, oggetti rituali e tessuti pregiati. Non erano considerati vittime, ma messaggeri celesti, che avrebbero potuto ottenere la clemenza degli dèi. Le famiglie accettavano il destino dei propri figli con dolore misto a orgoglio, convinte della loro trasformazione spirituale.

Una mattina di cinquecento anni fa...
Quel giorno, oltre cinque secoli fa, una piccola carovana saliva verso la cima del Monte Ampato. I sacerdoti aprivano il cammino con canti e libagioni. I bambini camminavano in silenzio, storditi dalla chicha – una bevanda alcolica a base di mais – e dalle foglie di coca masticate lungo il percorso. Una di loro era Juanita, una ragazzina di circa dodici anni, scelta per la sua perfezione.
Quando il gruppo giunse alla sommità, preparò il luogo del sacrificio. Le nicchie nella roccia furono adornate con coperte, offerte e piume. Juanita bevve un’ultima volta, si rannicchiò nel gelo eterno e scivolò nel sonno. Il colpo che pose fine alla sua vita fu rapido, silenzioso. Il sacrificio era compiuto. Lo spirito del vulcano si sarebbe finalmente placato?
Chi era Juanita
Juanita non era una bambina qualunque. Scelta tra le migliori del suo villaggio, fu nutrita per mesi con alimenti riservati all’élite – carne, mais e bevande sacre – così da essere pronta a incontrare gli dèi. I suoi lunghi capelli neri e lisci, il volto ovale e la pelle ambrata raccontavano l’archetipo dell’innocenza offerta agli spiriti.
Nel suo ultimo viaggio, Juanita era sedata, probabilmente inconsapevole. Per gli Inca, la sua morte non era una punizione, ma un passaggio: Juanita stava ascendendo. Avvolta in abiti cerimoniali e accompagnata da oggetti rituali, si addormentò tra i ghiacci. Lì rimase, protetta dal gelo e dalla pietra, fino al 1995.
8 settembre 1995: il ritorno di una messaggera
Fu l’archeologo americano Johan Reinhard e lo scalatore peruviano Miguel Zárate a ritrovarla, casualmente, durante una spedizione sul vulcano. Un fagotto affiorava dalla neve, spostato da una recente eruzione. Lo aprirono, e il tempo si fermò: Juanita era lì, rannicchiata, come addormentata.
Il suo corpo era incredibilmente intatto. La pelle, i capelli, persino gli organi interni si erano conservati nei secoli grazie al gelo. Juanita tornava alla luce del sole non come vittima, ma come testimone vivente del mondo spirituale e culturale degli Inca.
Gli studi confermarono ciò che finora era solo ipotesi: gli Inca praticavano sacrifici umani sistematici, soprattutto di bambini. Juanita era sana, priva di malattie, e la causa della morte – una frattura cranica – confermava la brutalità ritualizzata del momento.
Il senso di un sacrificio
Ma era davvero brutalità? Per il mondo andino, la morte di Juanita era un gesto sacro. Era l’offerta massima per mantenere l’equilibrio tra il mondo umano e quello sovrannaturale. I disastri naturali, le carestie, l’incertezza della vita di montagna spingevano le comunità a cercare l’intercessione degli dèi. Juanita era la voce dell’intera comunità.
Attraverso la capacocha, gli Inca rafforzavano non solo il legame con il divino, ma anche il senso d’identità collettiva. I riti non erano spettacoli effimeri: erano momenti di comunione cosmica, dove il dolore individuale si dissolva nella speranza collettiva.
Una celebrità senza tempo
Dal 1996, Juanita ha viaggiato per il mondo. È apparsa su Time, National Geographic e in mostre internazionali dal Giappone agli Stati Uniti. Nel 1998, è stata accolta nel Museo Santuarios Andinos di Arequipa, dove riposa in una teca refrigerata a -20ºC, circondata da altre piccole vittime recuperate lungo le Ande.
Nel novembre 2020, Juanita è stata dichiarata ufficialmente Patrimonio Culturale della Nazione peruviana. Non solo un corpo, non solo una mummia: Juanita è memoria viva, ponte tra passato e presente, tra uomo e divino.
Eterna narratrice degli dèi
Oggi, Juanita ci racconta senza parole cosa significa appartenere a una civiltà che vedeva nella natura un volto sacro. La sua presenza ci interroga su cosa siamo disposti a sacrificare per ciò che riteniamo sacro, e su quanto ancora possiamo apprendere da chi ha camminato prima di noi, nel silenzio dei ghiacci e nella luce delle alture.



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