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L'OMBRA DELLA PAROLA E' VERITA'?


Dal buio delle ombre alla luce del reale: il mito della caverna di Platone come metafora di conoscenza, libertà e responsabilità.
L'ombra della parola diventà verità


Immagina di nascere in un luogo dove il mondo è soltanto una parete.

Non una parete qualsiasi: una parete che parla, che racconta storie, che proietta figure in movimento. E tu, legato, non puoi far altro che guardarla. Da sempre. Per sempre. Ti hanno insegnato che quella è la realtà. Che ciò che vedi è “il vero”.

Che le ombre hanno un nome, un peso, un valore. Che l’ombra di un cavallo è un cavallo. Che l’ombra di un uomo è un uomo. Che l’ombra di una parola è una verità.


Questa è la caverna di Platone, nella Repubblica: una scena essenziale e feroce, come certe parabole che non hanno bisogno di fronzoli perché ti prendono alla gola.


Dentro la caverna ci sono prigionieri incatenati, costretti a fissare il fondo. Alle loro spalle arde un fuoco. Tra il fuoco e loro passano oggetti, sagome, figure portate da altri uomini. Il risultato è un teatro di ombre: una specie di cinema primitivo, un notiziario eterno, una “timeline” senza fine. Per i prigionieri quelle ombre sono il mondo.


Poi accade l’impossibile: uno di loro si libera.

E qui Platone è spietatamente realistico: non racconta una liberazione dolce. Racconta uno strappo. Un dolore.

Perché quando ti sciogli dalle catene, il collo fa male. Le gambe tremano. E soprattutto, quando ti giri verso il fuoco, la luce brucia. Ti acceca. Ti fa venire voglia di tornare subito a guardare le ombre, dove almeno sapevi come funzionava tutto.


La verità, all’inizio, non consola. La verità disorienta.

Eppure, passo dopo passo, quel prigioniero sale. Esce. Vede il mondo esterno. Vede i colori, la profondità, la vita piena. Vede che ciò che credeva reale era soltanto una superficie nera su bianco, una realtà ridotta, addestrata, “comoda”.

E allora succede il secondo gesto, quello più difficile: torna indietro.


Torna nella caverna per dire agli altri che esiste un’altra realtà. Che si può uscire. Che il mondo non è una parete. Che la luce è là fuori.


E gli altri, invece di gioire, lo deridono. Lo rifiutano. Lo considerano pazzo, pericoloso, disturbante. Perché chi vive nelle ombre non ha paura delle ombre. Ha paura del cambiamento.

E qui il mito smette di essere filosofia “astratta” e diventa una domanda etica, personale, urgente.


L’etica della luce: conoscere è un dovere, non un ornamento

Il mito della caverna non parla soltanto di conoscenza. Parla di responsabilità.

Platone descrive un passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza filosofica: dalla percezione immediata, soggettiva, emotiva (quella che ci appare e ci colpisce) a una comprensione più razionale, più profonda, più faticosa. È il salto tra “mi sembra” e “capisco”. Tra “ho visto” e “ho compreso”.

E qui arriva il nodo etico: non basta uscire.


Uscire è un atto di coraggio individuale. Ma tornare è un atto morale. È scegliere di non lasciare gli altri nella prigione solo perché tu ce l’hai fatta. È accettare l’impopolarità, la solitudine, la frustrazione di chi porta una verità che non viene richiesta.

Perché chi sta bene nelle ombre spesso non vuole essere salvato. O, più precisamente, non vuole essere disturbato.

La caverna, infatti, non è solo ignoranza. È anche abitudine. È anche identità. È anche appartenenza. Se tu togli a qualcuno il suo sistema di ombre, non gli togli soltanto un’idea. Gli togli un modo di sentirsi al sicuro.


E allora l’etica del mito è doppia:

  • Coraggio di cercare la verità, anche quando costa fatica e ti fa male agli occhi.

  • Umiltà di comunicarla, sapendo che non verrà accolta con applausi, e che la verità non ti rende automaticamente “migliore” degli altri.


Non è un mito che celebra l’eroe perfetto. È un mito che mostra quanto la liberazione sia scomoda, e quanto la verità possa essere rifiutata perfino quando è evidente.


Ma il punto più crudele, e più etico, arriva dopo. Il liberato torna nella caverna. Torna per dire agli altri che esiste un’uscita. E gli altri lo deridono. Lo rifiutano. Non perché siano cattivi, ma perché la caverna è un sistema perfetto: non ti uccide, ti addormenta.

Chi vive di ombre non teme le ombre.

Teme ciò che potrebbe spezzare l’equilibrio. Teme la vertigine del dubbio. Teme il prezzo della luce.



Ed è qui che il mito, invece di restare filosofia, diventa un discorso sul bene e sul male, sul coraggio e sulla responsabilità. Perché uscire è un gesto personale, ma tornare è un gesto morale. È decidere di non lasciare gli altri incatenati solo perché tu sei salvo.

È accettare l’impopolarità, la solitudine, persino l’ostilità. È capire che la verità non viene sempre accolta come un dono: spesso viene percepita come un insulto.

Quando si parla del mito della caverna, si cade facilmente in un equivoco moderno: trasformarlo in una polemica contro la religione, come se la caverna fosse “la fede” e la luce fosse “l’ateismo”. Sarebbe comodo anche questo, ma sarebbe un’altra ombra.


La caverna non è una religione in sé.

La caverna è ogni sistema chiuso che scambia la ripetizione per verità, la conformità per salvezza, la certezza comoda per realtà. Può essere una religione quando diventa dogma senza vita.


Può essere una politica quando diventa tifo. Può essere una comunità “spirituale” quando si fa setta. Può essere perfino un’idea scientifica quando viene usata come identità aggressiva invece che come ricerca. Le ombre cambiano forma, ma la dinamica è la stessa: restare dove non devi faticare per pensare.


E proprio qui serve distinguere con lucidità tra religione e spiritualità, perché non sono sinonimi e non dovrebbero mai esserlo. La religione è una struttura: una comunità, un linguaggio condiviso, riti, testi, tradizioni, simboli. Può essere una casa capace di educare al silenzio e alla responsabilità, capace di offrire un cammino e non solo risposte. Ma può anche diventare una parete, se smette di essere strada e si irrigidisce in obbedienza alle ombre.


La spiritualità, invece, è un movimento interiore: la ricerca di senso, l’ascolto della coscienza, l’esperienza del limite, la domanda su ciò che è vero, giusto, buono. È l’atto di non vivere solo in superficie. E questa ricerca può passare attraverso una religione, certo, ma può anche essere laica, filosofica, artistica, etica, persino silenziosamente quotidiana.

Per questo è importante dirlo senza esitazioni: essere atei non significa non essere spirituali. Ateo significa non credere in un Dio. È una posizione metafisica, non una diagnosi dell’anima.


Non descrive né l’etica né la profondità di una persona, perché queste non derivano da una posizione metafisica.

La coscienza morale, la compassione, l’interiorità e la capacità di meraviglia appartengono all’umano, non a un’etichetta di fede o di non fede. Per questo la linea di frattura non passa tra credenti e atei, ma tra chi usa idee e riti come ombre rassicuranti e chi, qualunque sia il suo orizzonte, accetta la fatica della luce: pensare, dubitare, rispondere delle proprie scelte.

Ci son persone che“escono dalla caverna” ogni volta che rifiutano la menzogna facile e scelgono la complessità, la verità, la responsabilità. E ci sono credenti che restano nella caverna, non perché credono, ma perché si accontentano di ripetere. La differenza non la fa l’etichetta. La differenza la fa lo sguardo.


Nel mito, la luce non appartiene a una categoria. Non è un badge, non è una bandiera. È un lavoro. È la capacità di dubitare delle proprie certezze, di pagare il prezzo della complessità, di accettare che la verità non ti coccola: ti cambia.

All’inizio ti fa male agli occhi. Ti disorienta. Ti toglie un’identità comoda. Ti costringe a crescere.


E forse, in fondo, è questa la dimensione più “religiosa” del mito, ma nel senso più alto del termine. Non appartenenza, non propaganda.

Conversione dello sguardo. Trasformazione interiore.

Che tu la chiami Dio, Verità, Bene, Realtà, o semplicemente vita piena, conta meno della domanda che Platone lascia lì, come una mano sulla spalla: sei disposto a uscire?


Perché la caverna non è un luogo lontano. È la pigrizia dell’anima. È quel punto in cui smettiamo di cercare, e iniziamo a ripetere. La differenza è che, nel nostro tempo, la caverna spesso si presenta come libertà. Ti dice: “Scegli tu cosa credere”. Ma poi ti offre sempre le stesse ombre, solo meglio illuminate.

E l’uscita, sempre, ha lo stesso prezzo: sopportare la luce finché diventa vista.




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Stefania Tosi Official, dove parlo di storia, simbologia, religione e spiritualità, mito e superstizione.



 
 
 

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