IL MISTERO DELLE JANAS Sarde. Streghe o sacerdotesse?
I tamburi suonavano lentamente. Le fiamme delle torce oscillavano e sussurri indecifrabili giungevano dall’oscurità circostante. I cuori del clan, riuniti innanzi alla domus, restavano saldi. In alto scorreva il fiume di stelle in cui le anime dei defunti avrebbero nuotato per rinascere. Prima però si compiva il rito per propiziare il viaggio arcano e misterioso verso l’Altra vita.
Il battito dei tamburi accelerò e così anche la danza delle sacerdotesse che, inebriate dall’estasi, scivolavano nella trance: il velo tra i mondi si sollevava e il Divino si mostrava. Tale contatto era un privilegio riservato agli iniziati e tra essi spiccavano le Janas, sacerdotesse del periodo pre-nuragico depositarie antichi Saperi condivisi da molte civiltà del Mediterraneo.
La grande sacerdotessa, ripetendo un gesto che si perdeva nella notte dei tempi e che aveva avuto origine nelle grotte del Paleolitico, levò la mano e la notte tremò. Nel suo palmo tinto di ocra rossa era racchiuso il potere di schiudere la soglia della vita e della morte. Così, mentre la musica cresceva di intensità, facendo vibrare i respiri e tendere i corpi, la magia sacra si compiva.
Con i sensi stravolti dall’estasi, la grande Jana guidava la processione che dal mondo superiore scendeva in quello oscuro delle origini: non negli inferi, come spesso erroneamente viene detto, ma nel ventre antico della madre terra, umido e accogliente, da cui ogni creatura viene al mondo. Si entrava nell’antro scavato nella roccia, accolti da simboli propiziatori e si proseguiva verso i piccoli ambienti interni, dove i corpi avrebbero riposato mentre gli spiriti sarebbero rinati.
Agli occhi delle Janas la Grande Dea si mostrava nel suo triplice aspetto: la «bianca germogliatrice, rossa mietitrice e scura ventilatrice del grano» [1]; Ella era il nutrimento di tutti semi del mondo e Guardiana della soglia ultraterrena.
Mentre il rito procedeva, la grande Dea assumeva il volto delle Janas, le voci innalzavano canti, le mani si tendevano e i defunti, rannicchiati come bambini addormentati, venivano cosparsi di ocra rossa, ritenuta in virtù dei suoi potenti effetti magici, di favorire la rinascita del defunto nell’aldilà.
Il pigmento naturale, ottenuto dall’ematite, era ben noto già dai Neanderthal che, difatti, se ne servivano per le inumazioni; il colore evocava vitalità, forza, salute nonché il momento primo della venuta al mondo con il copro coperto di sangue. Ecco allora che l’aspersione dell’ocra rossa chiudeva il cerchio dell’esistenza e propiziava la resurrezione spirituale.
Offerte e piccoli oggetti venivano deposti affianco dei defunti e nella mano si ponevano statuine femminili, evocatrici della Grande Madre, che accompagnava e accoglieva nel regno dell’aldilà.
Già nel Paleolitico superiore la pratica dell’inumazione presenta tratti comuni:
«i corpi, cosparsi di ocra rossa, venivano deposti in fosse assieme ad un certo numero di oggetti d’ornamento (conchiglie, ciondoli, collane); la presenza di quegli oggetti implica non solo la credenza in una sopravvivenza personale, ma anche la certezza che il defunto continuerà con la sua attività specifica nell’altro mondo»[2].
Avvolte dall’oscurità, al ritmo dei tamburi sciamani e con il respiro affannato, le Janas si fondevano con la Grande Dea, divenendo epifanie viventi del Divino Femminino: le mani, i corpi e le voci trasmutavano dallo stato umano a quello misterioso e soprannaturale.
Nelle società pre-storiche, meno gerarchizzate e più egualitarie, la donna era la mano sacra che univa i mondi del noto e dell’Ignoto. Lei - sciamana, guaritrice e sacerdotessa - era la manifestazione terrena della potenza creatrice numinosa e femminina.
Là, nel ventre di roccia, come nell’utero materno, accompagnati dalla musica, stringendo a sé l’effige della Dea, gli spiriti ascendevano. Le domus de Janas erano tombe ipogeiche collettive di varie dimensioni di cui in Sardegna se ne contano più di tre mila e molte sono impreziosite da decorazioni e affreschi che ne sottolineano il grande valore antropologico e archeologico.
La domus de Janas di Cuccuru s’Arriu di Cabras presenta diciannove sepolture, dove oltre all’ocra rossa, furono rinvenute diverse statuine femminili dallo stile volumetrico-naturalistico, ampiamente attestato in varie località del Mediterraneo (fra le più note Malta, Turchia e Grecia): le statuine presentano testa cilindrica e volume di busto e cosce molto accentuato; la loro posizione è stante e le mani sono aperte lungo i fianchi[3]. Le analisi al C14 effettuate sugli scheletri hanno collocato temporalmente le inumazioni attorno alla prima metà del V millennio a.C. La presenza dell’ocra e delle statuine femminili sono due elementi essenziali del rituale magico che aveva come esito la manifestazione della Dea e la rinascita nell’Altra vita.
Avvolte dalle luci delle torce e circondate dall’impalpabile presenza degli spiriti, le Janas danzavano, cantavano al ritmo dei tamburi, le cui vibrazioni sonore inducevano lo stato di trance; la “magia” compiuta era tipo sciamanico: la sacerdotessa entrava in contatto con il mondo degli spiriti per accompagnare le anime dei defunti.
Lo stato alterato di coscienza era ottenuto con:
il tamburo sciamanico che si distingue da tutti gli altri strumenti proprio perché, grazie all’incantesimo del suono o «voce degli spiriti»[4], rendeva possibile un’esperienza estatica[4]. La propagazione delle onde musicali a bassa frequenza, unite alla danza magica e tessute insieme ai canti melodici, dava vita a una sorta di incantesimo sciamanico-percettivo e all’estasi. «Dal punto di vista scientifico il suono del tamburo segna un incremento delle onde theta, responsabili di modificare la coscienza ordinaria verso immagini di tipo ipnagogico ed estatico, facilitando stati di grande creatività»[5]. Il battito ritmato del tamburo a bassa frequenza sembra favorire lo sviluppo delle onde Theta e di conseguenza quello stato intermedio tra sonno profondo e veglia in cui si verificano i viaggi sensoriali degli sciamani. La presenza di strumenti musicali durante i rituali è attestata sin dal Paleolitico grazie al ritrovamento di flauti dalla scala pentatonica identica a quella corrente. A Çatalhöyük è presente un affresco incompleto di un musico/danzatore con un tamburello in mano; nel mondo greco le Menadi, donne sacerdotesse del culto di Dioniso, correvano per i boschi in preda al furore estatico al suono di timpani e flauti. La trance, infatti, era facilitata in particolari condizioni di stimolazioni sensoriale quali la musica, la danza, il canto ripetitivo, l’esaltazione emotiva. La musica, infatti, si rivela come un ottimo “attivatore” degli stati modificati di coscienza e la costante e precisa percussione di tamburi, sonagli o gong generava un’assonanza vibrazionale con le onde Theta del cervello umano. Il ritmo musicale produce il fenomeno detto “risposta in frequenza”, per cui grazie al quale il cervello si sintonizza con la gamma di onde prodotta esternamente. In Marocco, le antiche danze tradizionali prevedono l’uso di tamburi con sonagli e canti che scandiscono il ritmo sino a provocare la frenesia mista a trance. Specialmente nella guedra (nome del tamburo usato), la danzatrice segue il ritmo dei tamburi, muovendo le braccia, la testa e le mani con foga e frenesia, sino a cadere in una sorta di trance. L’esperienza estatica viene liberata in seguito all’estrema concentrazione provocata da un prolungato tambureggiamento. Il fenomeno marocchino è simile al tarantismo, diffuso nel Sud Italia. Nel mondo islamico, la corrente mistica del sufismo pratica una forma di meditazione particolare, nota come “danza dei dervisci”: i monaci la eseguono ripetendo un movimento rotatorio sempre più rapido su sé stessi, fino a perdere coscienza delle propria persona.
L’assunzione di sostanze psicoattive che possono indurre stati alterati di coscienza. A Creta è probabile che si usasse l’oppio e alcuni esemplari di capsule di papavero sono stati rinvenuti in reperti legati all’uomo di Cro-Magnon; ciò avvalora l’ipotesi dell’uso di sostanze allucinogene al tempo dell’arte paleolitica. L’estasi per intossicazione da funghi è nota in tutta la Siberia. Presso i Lapponi le donne-sciamano usano mezzi analoghi: grazie a un’intossicazione provocata da funghi, esse entravano in estasi, comunicavano con gli spiriti e quindi rivelavano, in canzoni, ciò che esse avevano appreso dallo stesso Essere Supremo[6] o Grande Madre. Le Janas sarde, esperte nell’uso erbe, erano tenute in alta considerazione dai membri del clan, agli occhi dei quali dovevano sembrare dotate di poteri straordinari di natura divina. Tali sciamane infatti sapevano curare, avere visioni e dominare il fuoco, elemento di purificazione, di iniziazione e di transizione spirituale. Per aiutare la trance le sacerdotesse bevevano estratti di Datura Stramonium; le cui proprietà allucinogene erano ben note: essa spalancava le porte della percezione e favoriva la divinazione. Appartenente alla famiglia delle Solanacee, come la Belladonna e la Mandragora, compare nei testi medievali come “erba del diavolo e delle streghe” poiché, una volta trasformata in unguenti, permetteva alle streghe di volare. Gli effetti della Datura Stramonium però la rendevano particolarmente insidiosa: da un lato, potente allucinogeno che scatenava intense visioni; dall’altro, temibile veleno che, se somministrato in modo scorretto, poteva provocare la morte per paralisi respiratoria. Per questo la sacerdotessa/sciamana possedeva una sapiente conoscenza delle piante.
Divinazione, guarigione e Verità si offrivano agli iniziati tramite le sostanze sacre e... pericolose.
La domus de Janas era luogo sacro e mistico, nonché ritorno al primigenio grembo materno; come testimoniano le molte “false porte”, analoghe a quelle egizie, la domus era il luogo di passaggio da una dimensione all’altra, mentre le protomi taurine onoravano e invocavano il potere magico dell’utero femminile cosmico:
nel ventre ctonio si rinasce a nuova vita.
Molti santuari dedicati a culti funerari sono stati edificati secondo tale simbologia, come la Tomba dei Giganti di S’Ena e Thomes e il Pozzo di Santa Cristina, ciascuno dei quali merita un approfondimento che qui non è possibile soddisfare. Numerosi sono i simboli rinvenuti all’interno delle tombe: spirali, singole e doppie, Chevron e altri, un autentico linguaggio evocativo-simbolico della Dea, come egregiamente documentato dall’archeologa M. Gimbutas nei suoi studi decennali. E il potere di attivare tali simboli risiedeva nelle mani delle Janas sarde, sacerdotesse, sciamane e guaritrici.
Un tempo, prima dell’era dei grandi imperi e dei monoteismi patriarcali, ovunque si udiva il medesimo canto per Colei che tutto poteva:
«Terra, dea divina, Madre Natura, che generi ogni cosa e sempre fai riapparire il sole di cui hai fatto dono alle genti; Guardiana del cielo, del mare e di tutti gli dèi e le potenze; per il tuo influsso tutta la natura si acqueta e sprofonda nel sonno... E di nuovo quando ti aggrada tu mandi innanzi la lieta luce del giorno e doni nutrimento alla vita con la tua eterna promessa; e quando lo spirito dell’uomo trapassa è a te che ritorna. A buon diritto invero tu sei detta Grande Madre degli Dei[7]».
[1] R. Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 2009, p.82 [2] M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, op. cit., p. 21. [3] http://museoarcheocagliari.beniculturali.it/attivita/blog/dea-madre-da-cuccuru-sarriu-cabras/ [4] M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Mediterranee, Roma, 1992, p.95. [5] M. Luciani, Donne sciamane, Venexia Edizioni, Roma, 2012, p.51. [6] M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, op.cit., p.117 [7] R. Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 2009, p. 84.
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