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Egitto: il potere segreto del numero due- parte 2



Dopo la coppia divina delle dee Neckebt e Uto, continuiamo ad esplorare la magia del due che così tanto ha partecipazione alla costituzione dello Stato egizio, la quale è ancora da decifrare completamente. Certamente il patrimonio simbolico-spirituale ha stato un elemento fondamentale.



LE CORONE


La corona bianca dell’Alto Egitto e la corona rossa del Basso Egitto sono uno dei simboli più famosi e rappresentati dell'arte egizia. Costituivano la doppia corona chiamata pshent, usata dai primi sovrani per simboleggiare l’unione territoriale tra il Delta e la valle del Nilo. Come si sa, il regno Egizio in principio era diviso in due entità territoriali, ciascuna autonoma e indipendente. L’unificazione sarebbe avvenuta attorno al 3.200/3.000 a.C. per mano di un mitico sovrano di nome Narmer o Menes.


La produzione artistica del Naqada III (3300-3100 a.C.) documenta, con la produzione delle “tavolozze per la cosmesi”, gli eventi che trasformarono il paese.

Sotto lo scettro del semi-leggendario sovrano, l’Alto Egitto si impose sul regno del nord, decretando la nascita del più splendente degli imperi.

Le “tavolozze per cosmesi”(lastre di scisto o ardesia usate per polverizzare i minerali come la malachite, l’ematite e la galena che servivano da ombretti) assolvevano ad una funzione patriottica, evocando le vittorie su nemici interni ed esterni, con un linguaggio visivo volutamente enfatizzato in favore dei vincitori. Con il tempo divennero oggetti votivi da portare con sé nella tomba o da offrire in dono ai templi.


La doppia corona quindi esaltava la ritrovata unità e ricostituiva la polarità simmetrica su cui la spiritualità egizia si basa.




La scelta dei colori per ciascuna corona racchiudeva un significato simbolico molto antico:


  • Il rosso, erroneamente associato al deserto e alla morte, evocava la sacra ocra rossa, usata da millenni per le pitture rupestri e per i riti funerari. Come visto, la funzione magico-rituale dell’ocra rossa si perde nella notte dei tempi. Il rosso, diffuso nelle sale sacre di Çatalhöyük, a Malta, a Creta, nelle caverne paleolitiche europee, nelle grotte del Tassili n’Jaffer, di Gilf Kebir e altre, celebrava la forza vitale e il potere rigenerativo del sangue.

Secondo le credenze degli avi, l’ocra aiutava l’essenza spirituale a lasciare il corpo e a viaggiare verso le terre ignote dell’Aldilà. Sul capo dei sovrani del Basso Egitto, come la dea cobra Uto, la corona rossa assommava in sé cariche magiche sia apotropaiche sia rigenerative. La corona rossa era detta DESHRET.

  • Il bianco richiamava la lucentezza.

Per gli Egizi infatti la luce aveva l’aspetto di un bianco fior di loto a cinque petali, che sbocciò sulla superficie delle acque primeve, irradiandosi all’infinito[1].

Oltre ad essere epifania del divino, il bianco esprimeva il ricongiungimento con gli spiriti luminosi e la conseguente rinascita celeste.



Il sovrano dell’Alto Egitto con indosso la corona bianca era un prescelto che aveva in sé il potere della Luce e poteva contare sulle forti ali, sui pericolosi artigli e sui poteri rigenerativi di Nekhbet; per lui la vita e la morte non avevano segreti. La corona bianca era detta HEDJET.






Molti sono i dipinti e i bassorilievi dei templi che immortalano il momento solenne in cui il faraone, in qualità di Horus vivente, veniva incoronato dalle divinità con la corona pshent. È un atto solenne, poiché si compivala consacrazione del potere divino in terra. Il faraone con sul capo la corona pshent assumeva su di sé l’onere della prosperità e del benessere della terra dell’avvoltoio e del serpente.








APE E GIUNCO


Altri due simboli fondamentali sono l’ape e il giunco che INSIEME formano "neswt-bity", dicitura che precede il cartiglio del sovrano e che viene tradotta con la formula “colui che governa sul giunco e sull’ape”.

  • L’ape è una creatura conosciuta e apprezzata sin dal Neolitico per la sua straordinaria peculiarità: la produzione di miele. Alcune decorazioni tombali ci permettono di conoscere quanto in Egitto fosse diffuso e tenuto in grande considerazione.

Già verso il IV millennio a.C. si praticava l’apicoltura, così da garantire il prezioso nettare per le classi più elevate e per l’impiego in medicina. La più antica raffigurazione di un alveare e delle api risale al 7000 a.C. ed è contenuta nella grotta spagnola di Cueva de la Araña, in Valencia:
  • nella pittura si vede un uomo che, aiutandosi con delle liane, si avvicina all’alveare per estrarre il miele circondato da un nugolo di api. Si può facilmente intuire la meraviglia destata nelle popolazioni neolitiche da questo piccolo insetto capace di “creare” qualcosa di così speciale come il miele.


In Egitto, la documentazione figurativa, sebbene non abbondante, ci permette di ricostruire il valore sacro riconosciuto al miele e all’ape che lo produceva. Prima dell’estrazione, che avveniva alla fine dell’autunno, l’alveare veniva fumigato con alcuni bastoncini d’incenso che aveva la doppia funzione: da un lato di calmare le api per permettere il prelievo dei favi e dall’altro come offerta votiva all’alveare.


La complessità del favo e del processo di produzione del miele erano considerati un esempio della perfezione divina

La tomba di Pabasa nella necropoli di Tebe, nel Basso Egitto, fornisce una serie di pitture di inestimabile valore.

In esse è chiaro il rispetto e la devozione riconosciuti alle api che, secondo un mito, erano “le lacrime di Ra”.

Le piccole gocce dorate non erano solo un alimento prelibato, ma possedevano anche proprietà magiche e terapeutiche che le rendevano perfette per curare varie malattie, per favorire la cicatrizzazione delle ferite; o ancora come in cosmesi per la cura dei capelli e della pelle.


Le api, che producevano le gocce d’oro, erano altrettanto speciali e prodigiose poiché assommavano significati e simboli ancestrali.

Il piccolo insetto, infatti, per Marija Gimbutas altro non era che un’altra epifania della deità primordiale in virtù delle sue capacità rigenerative.


Gimbutas riporta che l’ape veniva raffigurata in molti modi diversi e che era preminente negli ipogei neolitici e nella religione minoica,

sotto forma di decorazioni per vasellame, in aspetto teriomorfo e colta nell’atto di uscire da un bucranio (cioè da un utero) o da caverne e tombe[2].

L’entrata e l’uscita dal favo ricorda il passaggio dalla dimensione solare a quella ctonia, nella quale si come la grande magia creativa, in questo caso il miele.


Inoltre era chiaramente legata alla resurrezione poiché nei mesi invernali sembrava morire per poi rinascere in primavera; anche in Egitto l’ape presentava un legame con il mondo dell’aldilà, essendo considerata simbolo dell’anima.


  • Il giunco è una pianta acquatica perenne e pertanto direttamente connessa al grembo acquatico. Simbolo di fertilità, il giunco cresceva rigoglioso sulle sponde del Nilo ed era apprezzato per le sue molte proprietà medicinali e per i numerosi impieghi quotidiani.

Rigoglioso, folto e verde, il giunco – come tutte le piante- rappresentava l’energia solare manifestata in perfetta congiunzione con la dimensione acquatica in cui si sviluppava e si rifaceva al mito del Nun cosmico.

La predilezione risposta in tale pianta dall’Alto Egitto risiede nella sua diffusione lungo il fiume sacro.

Il giunco era connesso con i Campi Iaru, la distesa di giunchi e acqua che si trovava nel parte orientale del cielo dove gli dèi e i sovrani dimoravano sereni per le eternità.



Vedere le distese di giunchi ondeggiare nelle brezza del giorno, tra le acque scintillanti adornato dai bei fiori rosei, assicurava la presenza del potere rigenerativo e la benedizione da parte degli dèi.

LOTO E PAPIRO



Due piante sacre hanno unito per millenni la Terra di Kemet e tramandato memorie ancestrali:

  • Il loto è la pianta sacra consacrata all’Alto Egitto. Il suo carattere acquatico la rende, come il giunco, manifestazione del potere vivificante del sole a cui si aggiunge la simbologia della rigenerazione.

Il fior di loto, infatti, ad ogni tramonto si chiudeva e si nascondeva nelle acque da cui riemergeva all’alba, per rinascere a nuova vita, cercando la luce che nasceva dal grembo solare.

Dalle molte e varie utilizzazioni, il loto in modo specifico quello blu, era considerato sacro e associato al divino e veniva offerto come “cibo” poiché donava la vita eterna.

Secondo alcuni miti, infatti, il loto sarebbe stato il primo a sorgere dalle acque primordiali e dopo il demiurgo, e dai suoi petali sarebbe nato il sole.

Frequenti nelle tombe ipogee di Tebe sono le raffigurazioni di famiglie dei vivi e dei morti che aspiravano l’aroma liberato dal fiore.


È possibile che il fiore venisse impiegato durante specifiche cerimonie e consumato tramite ingestione o aspirazione in virtù delle sue proprietà psicoattive?


Di certo il loto blu, come l’ape, il giunco e le dee dell’avvoltoio e del serpente, era considerano un’epifania di quello spirito ancestrale femminile, soprannaturale e totalizzante, che univa in sé ogni manifestazione della vita, sia essa umana, animale, vegetale e astronomica.


Il loto, così puro, evocava la magia della rinascita, scaturita dalla sua essenza celeste.


Il papiro è anch’esso una pianta sempreverde acquatica che cresceva rigogliosa lungo il Nilo, specie nel Delta di cui era uno dei simboli. Il papiro era l’immagine vigorosa del mondo in gestazione;

trasformato in colonne bene modellate, sosteneva i templi in cui si compivano i grandi prodigi dell’universo; era lo scettro magico delle dee[3].

Monumentali e sorprendenti sono le colonne papiriforme che adornano i templi egizi, come Karnak, e di cui esprimono il potere rigenerativo: la magia del papiro risiedeva nelle sue peculiarità , come la rigogliosità, la robustezza e la bellezza ornamentale.


Il loto e il papiro sono le protagoniste di un suggestivo simbolo magico, il Sema-tawy ossia “l’unione delle terre”.

La raffigurazione prevede le due piante legate insieme da una coppia di dèi: Hapi sdoppiato, o Thot e Horus, Seth e Horus.


Il loro incontro unisce in un nodo magico l’Alto e il Basso Egitto e garantisce il fluire dell’abbondanza, della fertilità e della magia divina in tutto il regno.


Il Sema-tawy, presente su un lato del trono del sovrano o realizzato come oggetto funebre, ricomponeva la sacra unità cosmica. Ricordiamo che per gli Egizi il mondo terreno era specchio di quello divino:


il nodo, evocando l’intreccio di relazioni e dipendenze, garantiva l’Ordine delle origini ed esprimeva il perpetuo avvolgimento dell’energia cosmica.




Ankh, Udja, Seneb a tutti i lettori!



 

[1] L. Luzzatto e R. Pompas, Il significato dei colori nelle civiltà antiche, Bompiani, Milano, 2001, p.99.

[2] M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea, op. cit., p.327 [3] J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur, Milano, 2015.


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