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Chi ha detto che la mela fa bene?

Falsi miti e vere discordie.



La mela d’oro rotolò sul tavolo. L’elegante dedica “Alla più bella” incendiò gli animi delle grandi dee: Atena, Afrodite ed Era rivendicavano quel titolo ciascuna per sé. In un istante il lieto banchetto nuziale di re Peleo e della ninfa dei mari Teti divenne una rissa furibonda. A poca distanza, Eris, la dea della discordia, ammirava compiaciuta l’esito del suo operato. L’esito della disputa tra le divinità olimpiche è ben noto: la lunga e sanguinosa guerra di Troia che portò alla distruzione della città e alla schiavitù dei Teucri.

Sempre una mela fu all’origine dell’episodio che marchiò a fuoco l’Umanità. Accadde in un tempo lontano lontano, presso il giardino detto dell’Eden, ove i Nostri progenitori trascorrevano giorni e notti senza pensieri. La fame, la fatica, la paura, il freddo o la sete, essendo ignoti, non avevano nome. Non vi erano ansie né angosce, solo un sereno ed eterno presente.




Tra le meraviglie del giardino due spiccavano l’Albero del Bene e del Male e l’Albero della Vita che, simili a mansueti giganti, torreggiavano nella brezza celeste, ammantati di bellezza. Adamo ed Eva, pur ammirandoli, non vi si avvicinavano mai. Il comandamento del Signore risuonava chiaro nelle loro menti:


«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire»[1].

E così sarebbe stato se il serpente non avesse deciso di sussurrare nell’orecchio di Eva:


«Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male»[2].

Ciò che avvenne poi è cosa nota: la cacciata dal giardino, la condanna ad un’esistenza di fatica, la morte. E, soprattutto, l’anima dell’intera Umanità si macchiò del peccato originale.

Tutto a causa di una mela?

In realtà il passo biblico non presenta alcun riferimento al tipo di albero, né al frutto che venne mangiato da Eva. A decidere la tipologia del “frutto proibito” fu la Vulgata, la Bibbia di San Girolamo tradotta dal greco al latino, a causa dell’ambiguità del termine malum. Durante il Medioevo i copisti consacrarono la mela rendendola protagonista iconica del peccato a causa di errate trascrizioni; infatti la grafia degli accenti andava a scomparire e nel nostro caso essa era fondamentale, poiché mălum (male) era diverso da mālum (mela). La distorsione linguistica, tuttavia, consolidò quella simbolica, la quale divenne oggetto di molte celeberrime raffigurazioni artistiche, come la nota “Cacciata dal Paradiso” di Michelangelo. L’immaginario collettivo era ormai assuefatto alla coincidenza tra la mela e il peccato, binomio nefasto che ricorrerà anche in miti e nelle fiabe, come ad esempio in Biancaneve.


L’esegesi biblica ebraica aveva un’opinione diversa da quella cristiana e riteneva che il frutto potesse essere: il fico, poiché menzionato nel Testamento di Adamo, apocrifo del Vecchio Testamento, l’uva, il grano o il cedro. Una grande varietà che attesta un’unica certezza di tipo botanico, il frutto del Girardino dell’Eden, presumibilmente situato in Medio Oriente, per ragioni climatiche non poteva essere una mela.



Il peccato per gli Israeliti

Per gli Israeliti il più grande peccato consisteva nel violare la Legge e perdere così la protezione di Yahweh. La trasgressione infatti avrebbe avuto conseguenze tangibili e immediate: carestie, epidemie e schiavitù. Si rammenti che gli autori dell’Antico Testamento non credevano né nell’immortalità dell’anima, né nella resurrezione dei morti, pertanto ogni atto aveva esclusiva risonanza nella vita terrena. Il famoso patto stretto tra Yahweh e il suo popolo riguardava esclusivamente il “qui e ora” e il buon israelita vedeva premiata la sua fede in Yahweh con beni materiali, prosperità, una grande prole, molte mogli ecc. Il Dio degli eserciti non parlò mai di vita eterna, paradiso o inferno.

Gli israeliti non si sentivano macchiati da alcun peccato, poiché non veniva riconosciuta l’ereditarietà della colpa dei Progenitori. Tale posizione è condivisa dalla maggior parte dei rabbini, tuttavia esistono in seno all’ebraismo correnti più tradizionali, afferenti al Talmud, che riconducono la responsabilità ad Adamo per lo stato di degenerazione dell’Umanità.

Nell’ebraismo, comunque, la convinzione generale prevede che l’uomo non nasca macchiato da alcuna colpa, ma abbia la possibilità di scegliere tra la «buona inclinazione» e la «cattiva inclinazione» da cui dipenderà il destino ultraterreno.


Il peccato per i Cristiani

Il mondo cristiano non badava a sottigliezze geografiche e, più che del tipo di frutta, si preoccupava di trovare basi testuali solide e sacre al mito del peccato originale. La Lettera ai Romani di Paolo di Tarso offriva la soluzione:


«[…] a causa di un solo uomo (Adamo, ndA) il peccato è entrato nel mondo […] poiché tutti hanno peccato. […] La morte regnò da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo»[3].

Paolo, l’apostolo delle genti, aveva fatto del concetto di immortalità dell’anima e della resurrezione il pilastro del suo messaggio che richiamava aspetti già noti presso i pagani, imbevuti di Culti Misterici. Tuttavia Paolo andò oltre e legò indissolubilmente due principi che sono diventati vela e timone della religione cristiana: il peccato originale e la redenzione.


Infatti come ebbe a dire Tommaso d’Aquino, teologo ed esponente della Scolastica cattolica, «se non vi fosse stato il peccato, non avrebbe avuto luogo neppure l’Incarnazione»[4].


Il sinodo di Cartagine del 418 riaffermò alla presenza di 200 vescovi il dogma del peccato originale, tanto caro ad Agostino di Ippona, vescovo, Padre della Chiesa, teologo e poi Santo, convinto assertore dell’ereditarietà della colpa dei Progenitori. Al motto di “siamo tutti peccatori” il vescovo di Ippona condusse guerra spietata contro tutte le visioni “alternative” nate in seno alla giovane Chiesa.

Non vi era posto per orientamenti eretici come il pelagianesimo che negava la trasmissione del peccato originale e rivendicava il liberum arbitrium dell’Uomo. Del resto la libertà di decisione data all’uomo da Pelagio[5] non si accordava con il sistema ecclesiastico, che aveva come ragion d’essere aiutare l’umanità peccatrice ad evitare la dannazione eterna.


Tutt’oggi il Catechismo insiste a parlare di Adamo ed Eva come di coloro che cedettero alla tentazione del serpente/demonio. Furono loro a disubbidire. Furono loro a macchiare l'Umanità. Furono loro a perdere lo status di creature beate. Il Catechismo deve insistere su tali aspetti dogmatici, altrimenti che senso avrebbe la storia del Peccato Originale e la ricerca della Redenzione?[6].


Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica il peccato originale sarebbe un avvenimento primordiale, un fatto accaduto all’inizio della Storia dell’uomo[7] e tale presunta rivelazione dà la certezza di fede che tutta la storia umana è segnata dalla colpa originale, liberamente commessa dai nostri progenitori[8].

Quando Eva «prese del suo frutto (dall’albero, ndA) e ne mangiò» commise peccato, non tanto per il frutto di cui si cibò, fatto di per sé di poco conto, ma per il significato che portava con sé quel gesto. Ella trasgredì a un ordine, decise, a prescindere dal volere divino, cosa fosse “giusto” o “sbagliato”.

Eva rese concreto il monito del serpente, secondo il quale grazie ai frutti della conoscenza sarebbero stati come Dio[9].


Così “l’Albero del Bene e del Male” diviene archetipo del limite invalicabile, superato il quale, per l’Umanità, vi è solo la rovina. È ciò che accadde ad Ulisse nel XXVI canto dell’Inferno allorché si spinse per brama di canoscenza oltre il confine terreste imposto da Dio e vi trovò, invece, la morte.

Anche il mito babilonese dell’Epopea di Gilgamesh rientra in questa possibile interpretazione; il re di Uruk, infatti, tormentato dalla morte che affligge l’umanità, desidera guadagnare per sé l’immortalità ed essere uguale agli dèi.



Il messaggio catechistico è chiaro, la disobbedienza al comandamento di Dio mette in dubbio la salvezza eterna. E il Cristianesimo nasce infatti come religione salvifica, basata totalmente sull’idea che l’Umanità, macchiata dal peccato, necessita di salvezza. La promessa della liberazione dalla sofferenza terrena e della ricompensa eterna fecero breccia nello stato d’ansia e d’angoscia delle masse, oppresse da condizioni di vita misere.


Il gesto che l’episodio biblico condanna è, a mio avviso, l’autonomia decisionale dell’essere umano. Ecco il vero senso del peccato dei Progenitori. Ecco la macchia che si tramanda di generazione in generazione: il libero pensiero, l’autodeterminazione, l’autonomia morale ed etica .



Come tutti i testi teogonici, anche la Genesi riveste più un valore mitologico-culturale che di cronaca storica. I motivi che spinsero Paolo di Tarso e successivamente i Concili Ecumenici ad esprimersi in merito alla dottrina del peccato originale sono da ricercarsi nel presunto ruolo salvifico di Gesù Cristo, di cui ho trattato nel libro “Il Falso Dio[10].


Il Cristo si immolò sulla croce per lavare i peccati del mondo così da mondare l’anima degli uomini dal peccato originale e liberare l’Umanità dal male e dalla morte.

Eppure ogni uomo e donna continua a nascere con impressa nell’anima l’onta della colpa ancestrale. E come potrebbe essere diversamente? Senza la presenza di una cola da mondare non ci sarebbe necessità della Chiesa che dispensi la salvezza per mezzo di liturgie, cerimonie, donazioni, ritiri spirituali e pellegrinaggi.

Oltre a quanto detto, l’episodio del giardino dell’Eden gioca un ruolo fondamentale nella storia del pensiero cristiano poiché vi sarebbe stata la prima apparizione di Satana con le sembianze di un serpente nonostante tra i due personaggi non vi è coincidenza.



Satana

Satana, Signore delle schiere dei demoni, assurge al ruolo di rivale perennemente in lotta con il Cristo a seguito di ardite speculazioni teologiche cristiane. In questo senso si può affermare che il serpente dell’Eden si fa satàn in quanto si oppone al decreto divino ma non è “Satana”. Il grande avversario del Dio cristiano è una creatura polimorfa, frutto dell’influenza reciproca di diverse culture e popoli. Gli appellativi a noi noti (Satana, Diavolo, Lucifero, Belzebù) sono per lo più storpiature semantiche o errori di traduzione che, tuttavia, tanto hanno contribuito alla costruzione dall’immaginario del diavolo.


Il termine satàn, con la minuscola, non designava un personaggio in particolare, ma un avversario o un ostacolo. Era un attributo relativo a cose e persone. La prima menzione di satàn figura in Numeri 22, 22 ed è riferita all’angelo del Signore che, inviato da Dio, diviene ostacolo (satàn) di Balaam.



Anche re David viene additato come satàn dai Filistei:

«Non venga con noi in guerra (Davide, ndA), perché non diventi nostro avversario (satàn) durante il combattimento»[11]. E nel Primo Libro dei Re si legge che Yahweh suscitò l’edomita Adad come avversario (satàn) contro Salomone[12].

Niente corna e forcone, quindi: nell’Antico Testamento non vi è menzione di un essere maligno, brutto, terrificante e in grado di competere con il potere di Dio. A comprova di ciò in Isaia 45 si legge: «Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo».

Il Principe dei demoni è nominato nella Bibbia solo una volta, dove l’originale ebraico presentava l’espressione “helel ben shahar”, traducibile con “portatore dell’alba, figlio dell’aurora”. Le traduzioni in greco e poi in latino provocarono un erroneo slittamento da un appellativo a una personificazione. Nella versione C.E.I della Bibbia, infatti, leggiamo: «Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora?»[13]. La maiuscola, ingiustamente utilizzata, suggerisce che ci si riferisca ad una persona ben precisa che le suggestioni medievale trasformeranno nel supremo antagonista malvagio di Dio.





Chi era questa stella del mattino rifulgente che un tempo fu degna di lode, e adesso sprofondava nelle viscere della terra? Si riferiva a un’entità malvagia? A un emissario infernale? A un demone?

Nulla di tutto ciò: “la Stella del mattino” non aveva corna o zampe caprine, né occhi infuocati o un volto mostruoso. Era un signore di popoli. Era un re. L’autore del Libro di Isaia dice espressamente che si riferisce al re di Babilonia.

È nel Medioevo che prenderanno forma le storie diaboliche sul Principe del Male, in lotta con le forze della Luce. Scene apocalittiche, demoni mostruosi e diavoli feroci riempiono le prediche domenicali e le pagine dei manuali di esorcismo, terrorizzando le masse. Immaginiamo lo stato d’ansia e d’assedio che attanagliava gli uomini e le donne del Medioevo, costantemente sotto lo sguardo istigatore del Diavolo e punitivo di Dio. La storia del Medioevo è oppressa dall’ombra gigantesca del nemico implacabile: Satana e i suoi diavoli sono le personificazioni di varie divinità pagane fatte diventare il paradigma di ciò che è malvagio.


Il senso di colpa

Il mito del peccato originale, benché infondato, si è dimostrato teologicamente significativo avendo instillato un profondo senso di colpa a causa dell’atto di disubbidienza dei Progenitori; secoli di prediche hanno aggiunto un intenso senso di inadeguatezza e di nostalgia per il Paradiso perduto.

L’espiazione della colpa passava attraverso la mortificazione del corpo che, pur essendo dono di Dio, era manifestazione tangibile delle pulsioni viziose, come la lussuria o la gola: il corpo, infatti, era ritenuto la porta da cui il Diavolo strisciava nell’anima e la corrompeva. Alcuni santi famosi, come san Francesco d’Assisi, santa Teresa di Gesù e sant’Ignazio di Loyola, si servivano di cilici o simili per provocare delle lacerazioni corporali: maggiore era il dolore autoinflitto, maggiore era la grazia presso Dio.


Mortificarsi, fare penitenza e soffrire fisicamente sono stati ritenuti per secoli strumenti indispensabili per mondare l’anima e aspirare alla misericordia divina.

Si riteneva che lo Spirito Santo suggerisse le penitenze e mortificazioni da fare, pertanto era doveroso per ogni buon cristiano accettarle e metterle in pratica. Attraverso l’umiliazione corporale si cercava la comunione con la passione vissuta da Gesù Cristo sul Calvario: la flagellazione permetteva alla grazia di Dio di toccare il cuore del penitente così da renderlo umile e liberandolo dall’orgoglio, dalle passioni e dai peccati. Anche oggi accadono fatti simili. Nelle Filippine, ad esempio, durante il Venerdì Santo hanno luogo rappresentazioni realistiche del calvario in cui molti figuranti si autoinfliggono pene corporali, qualcuno cammina per chilometri reggendo una pesante croce e, infine, vi è chi, in onore di Cristo, si fa crocifiggere veramente.

Il senso di colpa e la ricerca spasmodica dell’espiazione hanno determinato nei secoli un’importante funzione di controllo ecclesiastico sulle società occidentali cristiane, le uniche a “godere” in esclusiva dell’ereditarietà della colpa.

E tutto per una mela... Io da domani solo ACE!


 

[1] Gn 2, 16-17. [2] Gn 3, 4-5. [3] Lettera ai Romani 5,12-14. [4]Summa Theologiae, III, q.1, a.3. [5] Monaco teologo cristiano vissuto tra il 360 e il 420, fondatore con Celestino della dottrina eretica cristiana detta Pelagianesimo. [6] P. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Tea, Milano, 2007. [7] http://www.vatican.va/archive/catechism_it/p1s2c1p7_it.htm. [8] Ibidem. [9] Gn 3,4. [10] S. Tosi, Il Falso Dio, Il falso Dio. Da Osiride a Gesù, l’anima pagana della religione cristiana. Libri Eretici, Orbassano (To) 2017. [11] 1Sam 29,4. [12] 1Re 11,14. [13] Is 14,12.

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