Voi, Uomini... l’avete distrutta!
- Stefania Tosi
- 13 apr
- Tempo di lettura: 5 min
IL FUTURO E' GIA' SCRITTO?

Immaginatevi un ruggito che squarcia la terra, sovrastato solo dal boato furente di un vulcano in eruzione. Lava incandescente, lapilli infuocati che piovono dal cielo... e in mezzo a questo inferno primordiale? Dinosauri che lottano per la sopravvivenza! Un T-Rex, furioso e implacabile, finisce la sua preda in un tripudio di sangue e fumo.
Benvenuti nella preistoria come non l'avete mai vista! Un'era brutale, dominata dalla legge del più forte, un vero e proprio "altro pianeta" popolato da creature maestose e feroci. Dimenticate i libri di scuola per un attimo, perché negli anni '80 il piccolo schermo ci ha catapultato in un mondo dove uomini e dinosauri si davano battaglia per la supremazia.
Chi può dimenticare i denti affilati del T-Rex Tirano o la tribù spietata del guerriero Taka? Per fortuna, in questo scenario da incubo, c'era un eroe: Ryu, un ragazzo selvaggio dalla pelle di leopardo, armato di lancia, astuzia e un coraggio da leoni. Lui era l'ago della bilancia in un mondo di pura crudeltà.
"Ryu il ragazzo delle caverne": un anime cult tratto dal genio di Shōtarō Ishinomori. Forse la storia non era storicamente accurata (diciamocelo, l'Homo Sapiens e i dinosauri non facevano merenda insieme!), ma la sua forza risiedeva altrove. Toccava corde universali che vibravano anche nel nostro piccolo mondo: pregiudizio, solitudine, amicizia, morte.
Ryu, con la sua pelle bianca in un mondo di cavernicoli "tipici", era il diverso, il reietto, marchiato come una maledizione da allontanare o eliminare. Il suo epico viaggio alla ricerca delle sue origini diventava la nostra stessa ricerca: Chi sono? Qual è il mio posto? Qual è il senso di tutto questo?
Seguendo le avventure di Ryu tra vulcani ruggenti e scontri con creature preistoriche, ci rendevamo conto che la sua battaglia era la nostra battaglia. La sua lotta per trovare un senso in un mondo ostile risuonava con il nostro desiderio di trovare il nostro posto nel mondo.

E nonostante la brutalità che lo circondava, Ryu compiva una trasformazione incredibile. Piano piano, si liberava della sua corazza emotiva, diventando empatico e generoso grazie all'affetto di Ran e del piccolo Don. Loro gli mostrarono un volto dell'umanità fatto di compassione e gentilezza, un'antitesi alla violenza che aveva segnato la sua giovane vita.
La tragica perdita di Kitty, l'australopiteco che lo aveva salvato e cresciuto come una madre, aveva seminato in Ryu rabbia e risentimento. E a ben vedere, l'umanità che popolava quel mondo preistorico animato sembrava una ruvida commedia umana, consumata dalla paura, dall'avidità e da una ferocia primordiale.
Ricordate la sigla, con la voce potente di Fogus che cantava di "un mondo ostile, che a tutti quanti paura fa..."? Descriveva perfettamente quel palcoscenico dominato dall'istinto ferino, dove la lotta per la sopravvivenza era l'unica legge.
Le 22 puntate dell'anime ci offrivano una versione più "soft" e semplificata rispetto al manga originale. Perché nel manga, attenzione spoiler!, la storia prendeva una piega inaspettata e sconvolgente, rivelando una trama temporale tutt'altro che lineare.
...E se l'anime ci aveva "edulcorato" la ferocia primordiale, le pagine del fumetto di Shōtarō Ishinomori (uno dei padri fondatori del manga moderno e una figura di importanza capitale nella storia del fumetto e dell'animazione giapponese) non facevano sconti.
Con un tratto graffiante e una lucidità inquietante, il maestro ci sbatteva in faccia la sua percezione cruda e disillusa del genere umano. Un'indole selvaggia e intollerante, incapace di trovare un equilibrio sia tra simili che con il fragile mondo naturale che lo ospita.
Le radici di questa visione pessimistica affondavano profondamente nel vissuto di Shōtarō Ishinomori. Testimone diretto dell'orrore atomico che devastò il Giappone nel 1945, egli riversò nel suo manga le cicatrici indelebili di quell'esperienza. Le immagini atroci, i ricordi lancinanti di quei giorni bui, proiettavano un'ombra cupa sul futuro dell'umanità, nutrendo un pessimismo viscerale.
Dimenticate le vicende bonarie de "L'era glaciale". Nel mondo di Ryu, come nell'anima tormentata di Ishinomori, non c'era spazio per Manfred, Scrat o Sid. Al loro posto, creature violente, dominate da pulsioni primordiali e distruttive, che l'autore utilizzava come uno specchio spietato del contesto socio-economico degli anni '60-'70. Un decennio scosso dalla guerra del Vietnam, dalle vibranti contestazioni giovanili e dalla brutale violazione dei diritti universali.
Il mondo che Ishinomori osservava era un pianeta in fiamme, dilaniato da conflitti. Le società ribollivano come vulcani pronti ad eruttare, scosse dall'attrito tra le spinte rivoluzionarie delle nuove generazioni e le convinzioni conservatrici di un passato che faticava a cedere il passo. Persino il Giappone, patria dell'autore, era in fermento, galvanizzato da un boom economico e industriale senza precedenti che esaltava un arrivismo sfrenato e un sacrificio cinico di sé e degli altri in nome di un progresso cieco.
Il mondo era in ebollizione, sospeso tra speranza e disperazione. Ma quale destino avrebbe abbracciato l'umanità?
Rileggendo il manga di Ryu oggi, la sospensione temporale appare ancora più fortemente allegorica. Quel "mondo ostile, che a tutti quanti paura fa" evocato dalla sigla dell'anime, non è forse solo un racconto di un passato remoto? Non potrebbe essere, invece, una proiezione inquietante del nostro futuro?
Perché, in fondo, cos'è l'uomo se non il più efficiente distruttore di sé stesso e del mondo che lo circonda?
Negli anni '60, la fantascienza, genere tanto amato da Ishinomori, aveva già dipinto scenari spiazzanti. Storie di un'umanità ingegnosa, brillante, persino geniale, che si rivelava, alla fine, la causa della propria rovina, tragicamente carente di quelle qualità morali ed etiche che avrebbero potuto salvarla. Umanità senza umanità.
Forse, mentre il mangaka di Tome dava forma alle avventure di Ryu, aveva ancora negli occhi la scena finale, potente e disturbante, del film "Il pianeta delle scimmie" del 1968. Il grido disperato di John Taylor, interpretato da Charlton Heston, che inveiva contro un'umanità auto-annientatasi, inginocchiato di fronte alle rovine della Statua della Libertà, simbolo di un'arroganza civilizzatrice autodistruttiva.
«Voi, Uomini... l’avete distrutta! Maledetti, maledetti per l’eternità! Tutti!» Il grido di Taylor risuonava come una condanna senza appello, senza possibilità di redenzione.
La pellicola di Franklin J. Schaffner raccontava la genesi di quel disastro: il collasso della società, innescato dallo sfruttamento irresponsabile delle risorse e da politiche economiche arroganti e inique, aveva portato a una crisi ambientale catastrofica, tale da rendere necessaria la ricerca di un nuovo pianeta Terra. Una spedizione spaziale, composta da tre uomini e una donna, era stata organizzata con la speranza di fondare un nuovo Eden.
Il significato intrinseco del monito Voi uomini l'avete distrutta! risuona ancora oggi, offrendo spunti di riflessione sul nostro rapporto con il pianeta e la nostra capacità di autodistruzione.
Ma il mondo in cui gli astronauti si ritrovavano dopo un atterraggio di fortuna era bizzarro e inquietante: una società dominata da scimmie parlanti, che costruivano case, facevano gli archeologi, gli scienziati, i preti... e cacciavano gli esseri umani, visti come animali inferiori, muti e stupidi. Agli occhi di Taylor, si presentava una società capovolta, grottesca e tragica.
E la sconvolgente verità veniva presto a galla: quel pianeta non era altro che la Terra stessa, distrutta migliaia di anni prima da un ennesimo conflitto globale e dall'uso massiccio di armi atomiche. Il reset evoluzionistico scaturito dalla devastazione nucleare aveva portato le scimmie a diventare la specie dominante. Ma anche in questa società capovolta persistevano egoismi, ingiustizie e pregiudizi, con un conflitto sociale latente che opponeva scimpanzé e gorilla.
Il grido disperato di Taylor, la visione apocalittica de "Il pianeta delle scimmie", non erano forse un monito, un'eco lontana ma inquietante di quella natura umana autodistruttiva che Ishinomori aveva percepito così vividamente e che aveva riversato, in forma allegorica e primordiale, nel mondo selvaggio di Ryu il ragazzo delle caverne?
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